LA VILLE EN MIETTES
Il paesaggio di bordo della Roma contemporanea
di Giulia Bassi
Architetto
L’IPOTESI DELLA POSTMETROPOLI
Distanza. Nell’interpretazione della città contemporanea questa parola non ha valore solo quando indica, la distanza fra la realtà urbana attuale ed i canoni con cui comunemente la si legge e interpreta. La letteratura internazionale, da Sennet a Brenner[1], evidenzia come tutto ciò che abbiamo storicamente associato all’idea di città sia da tempo sottoposto ad una vera e propria riconfigurazione: la crescente distanza riguarda infatti anche il suo confine fisico, al punto da dissolvere la rilevanza del centro unico in un’articolazione che tende ad ammetterne numerosi. Stanno cambiando quelli che consideriamo i caratteri propri dell’urbano, ciò che rende tale la città, distinguendola da altre forme di vita associata.
È inconsapevole la frequenza con cui si usano le categorie wirtiane di dimensione, densità ed eterogeneità[2] per definire una città che ha aumenta continuamente dimensione verso qualcosa di simile ad una regione, ad una conurbazione, ad un grande agglomerato. Dalla fine del Novecento, inoltre, anche densità ed eterogeneità risultano alterate e sono state concettualizzate nel modello dello sprawl: la città risulta frammentata, esplosa in una vera e propria moltiplicazione dell’urbano, che diventa di fatto una categoria non più chiara e significativa[3].
La città contemporanea, dalle dimensioni “regionali” è piuttosto un oggetto ambiguo , la cui descrizione risulta particolarmente complessa poiché è sempre più difficile isolare il fatto urbano contemporaneo in termini stabili e definitivi da un eventuale intorno altro. Il problema interpretativo sconta l’urgenza di concretizzarsi rispetto ai dati allarmanti in materia di crescita demografica, e conseguentemente dei centri urbani, che la ricerca prospetta da qui ai decenni futuri. Di fronte ad una nuova dinamica migratoria, si sente il bisogno di ripensare, prima ancora che ad ulteriori azioni concrete da attuare, a come interpretare efficacemente gli attuali processi di regionalizzazione dell’urbano che giungono a mettere in discussione, nell’immagine della città, alcuni degli assunti relativi proprio al rapporto tra dimensione, densità ed eterogeneità.
A lungo tali processi sono stati interpretati in termini di dispersione dei caratteri costitutivi della città centrale, riproducendo in questo senso un modello di lettura ottocentesco che contrapponeva il centro alla periferia, la concentrazione alla dispersione, l’eterogeneità all’omogeneità, la prossimità alla lontananza. Sembra che la letteratura non abbia rinnovato realmente il vocabolario e il concetto di città, sembra piuttosto che lo abbia di fatto esteso come griglia di lettura e giudizio a processi che da quel concetto iniziavano a prendere le distanze: si pensi a immagini quali quella della agglomerazione, della conurbazione o della stessa area metropolitana, di fatto basate ancora sull’idea di un rapporto di dipendenza gerarchica tra città centrale e territori ad essa contigui.
Il sospetto è che i modelli consolidati con cui si è guardato finora alla questione urbana contemporanea ne possano ancora spiegare solo una piccola parte, perlopiù riferita al suo aspetto fisico, ed abbiano perso potere interpretativo nei confronti degli innumerevoli “paesaggi invisibili” [4]che invece continuano a definirne l’identità e si complicano sempre più nell’interazione con gli altri sistemi della struttura urbana. Appare piuttosto intuitivo che questo vuoto interpretativo riguarda la città “diversa”, nuova, che si è sviluppata negli ultimi decenni e che è cresciuta ai bordi della città “conosciuta e familiare”. Partendo dallo studio di alcune città americane e non solo, l’ipotesi del geografo Edward Soja, alla base della definizione di postmetropoli[5] , è che si possano osservare nuovi fenomeni socio-spaziali che sembrano avere cancellato o modificato profondamente il rapporto tra urbano e suburbano. Come reagire dunque al l’assottigliarsi del gradiente di densità urbana, all’erosione progressiva dei confini e all’omogeneizzazione del paesaggio urbano all’interno di una crescente differenziazione e specializzazione del suburbano?
Provando a rispondere alle precedenti domande con una tesi di laurea su Roma, si è provato ad analizzarne la periferia, invece che come un sistema unitario, come una serie di luoghi singolari, non per questo sempre belli, ma con una loro autonomia figurativa, stavolta indipendente dal rapporto gerarchico con il centro della città. Tale autonomia è ritenuta nascosta in alcuni elementi del territorio che solitamente non sono presenti a definire la sua identità. L’operazione con cui tali elementi, successivamente chiamati “briciole” (miettes) sono stati portati in superficie è stata quella di creare una rappresentazione, in questo caso individuale, con il medesimo processo con cui se ne costruirebbe una collettiva che possa entrare a far parte della produzione culturale di una società (un quadro, una fotografia, un testo letterario). Questo è quello che Pierre Donadieu chiama Paesaggio: esso oscilla fra due polarità, una reale, naturale, mimetica del visibile, materiale, oggettiva, l’altra ideale, ciò che fa parte della nostra interpretazione, immateriale, soggettiva[6].
In un momento in cui, citando Barthes[7], il senso è vissuto in opposizione completa con i dati oggettivi, questa nozione di paesaggio è stata utilizzata per ristabilire delle connessioni fra questi due elementi che, indipendentemente dalla nostra consapevolezza, definiscono, in questo caso, l’identità di Roma, la quale offre un conflitto perenne tra le necessità funzionali della vita moderna e la carica semantica proveniente dalla sua storia.
ROMA
Nel rispetto della dicotomia precedentemente descritta, si è scelto di studiare un antico tracciato stradale come un oggetto che raccontasse non solo della logica e dell’epoca alle quali apparteneva, ma anche di un insieme di elementi identitari del territorio e trasversali rispetto al tempo, provando ad articolare una risposta sulla periferia contemporanea. Il tracciato in esame, ossia l’anello viario dei V migli, è stato inquadrato e descritto inizialmente in un contesto talmente lontano da rendere difficile, o perlomeno opinabile, qualsiasi approccio diverso da quello storiografico e documentario. È invece Piero Maria Lugli che, negli anni 90, restituisce alla strada un potere interpretativo, legandolo all’agro romano, patrimonio ecologico tutt’oggi esistente, come sua linea di confine dal V sec. a.C. ma anche all’età contemporanea, dove si presenta attraverso una serie di strade che anticamente, e forse sotto un altro nome, ne facevano parte. Tali strade attraversano oggi il territorio della prima corona periferica di Roma, ne rileggono alcuni elementi che lo sguardo “radiale” non coglie, quali il confronto fra diverse logiche insediative, i rapporti gerarchici all’interno della maglia infrastrutturale, l’identità di un territorio la cui immagine è ancora molto legata, nonostante la serialità e la formalità di alcuni tessuti urbanizzati, alla ruralità dell’agro. Si potrebbe pensare all’analisi di questo segno territoriale come al tentativo di forzare un’interpretazione; in realtà, ciò che invece si è concretizzato in un segno rappresentabile, raffigurabile in una mappa, dunque in qualcosa di leggibile e comunicabile, è una selezione approfondita sugli elementi che caratterizzano la grande massa indifferenziata della periferia non solo secondo dati fisici, ma anche distinguendo le logiche che nella storia li hanno portati ad essere in determinati luoghi, i diversi atteggiamenti con cui si è scelto di occupare il suolo per far espandere la città, scegliendo quindi criteri che non hanno sempre un corrispettivo tangibile diretto, ma che sono piuttosto il prodotto di un esercizio di analisi che salta continuamente dalle macrostrutture alle microstrutture del territorio e viceversa. Tale territorio, che nell’insieme produceva l’immagine della città diffusa, ha rivelato, nello specifico dell’area in esame, una particolare stratificazione di elementi eterogenei osservabile dalle grandi aree di spazio aperto continuo che la strada attraversa, quelle che la ricerca definisce come unità di paesaggio. Grazie alla morfologie di tali luoghi, distese aperte dove l’occhio può spaziare, come la valle dell’Aniene o la tenuta di Cinquina, si può intuire, stante il bordo urbano compatto in lontananza, di essere nel punto in cui città e campagna, spazio e luogo, natura e artificio, non sono ancora definiti in un’immagine a noi familiare, sia essa di compattezza o disgregazione e reciproca frammentazione.
IL PROGETTO
Appurata la provvisorietà e la mutevolezza come condizioni strutturali del bordo urbano, si è ipotizzato questo brano di periferia come un punto di contatto fra due identità, dove ognuna distintamente rilascia minuscole briciole che nel tempo si sono sovrapposte: presidi metropolitani, intermezzi rurali, artefatti incongrui e singolarità naturali formano la varietà del territorio postmetropolitano romano, quello che nel concreto, in quanto difficile da cogliere e da governare, risulta maggiormente investito da dinamiche di trasformazione continue, non sempre dirette ad uno sviluppo sostenibile. Si ritiene tuttavia che quello stesso sguardo che coglie le singolarità del paesaggio e le razionalizza in briciole della postmetropoli è in realtà uno sguardo progettuale che lega l’esperienza visiva alla possibilità di prevedere un criterio di interventi, finalizzati ad esaltare le qualità singole dei luoghi ancora ibridi che la strada analizzata attraversa. Soluzioni formali e riflessioni plastiche sono tuttavia distanti dalle “grane” di progetto a cui ha condotto questa ricerca e che sono più simili alla selezione di una griglia di luoghi, priorità e combinazioni declinate, punto per punto, nello specifico dell’elemento analizzato: ora un margine in fase di saldatura, ora la connessione fra elementi naturali, ora la conservazione di una particolare visuale.
[1]Neil Brenner, The urban question as a scale question: reflection on Henry Le Fevre, urban theory and the politics of scale, International Journal of Urban and Regional Research, n° 24, 2000 (pp. 361- 364)
[2] Louis Wirth, Urbanism as a way of life, American Journal of Sociology, Vol. 44, No. 1 (Jul., 1938), pp. 1-24, University of Chicago Press
[3]A. Amin, N. Thift, Città. Ripensare la dimensione urbana, Il Mulino, Bologna, 2005
[4] Kevin Lynch, L’immagine della città, Marsilio, Venezia, 2009
[5] Edward W. Soja, Postmodern Geographies, the Reassertion of Space in Critical Social Theory, ed. Verso, 1989
Edward W. Soja, Beyond Postmetropolis, Urban Geography , Vol. 32, Iss. 4, 2011
Edward W. Soja, Dopo la metropoli. Per una critica della geografia urbana; Patron, Bologna, 2007
[6] Pierre Donadieu, Campagne Urbane, Donzelli, Roma, 2013
[7] Roland Barthes, Semiologia e urbanistica, in Op. Cit. n. 10, Edizioni Il Cento, Napoli, 1967