In margine al Quaderno #13

In margine al Quaderno #13

Sull’edilizia pubblica in Italia e altrove

(in margine al Quaderno #13)

 

di Giorgio Piccinato

Direttore di UrbanisticaTre 

 

Le origini

Per oltre cent’anni l’edilizia pubblica ha rivestito un ruolo di guida nella progettazione delle abitazioni. Riformatori, urbanisti, architetti, amministratori erano impegnati nel duro lavoro di far sì che la città industriale potesse accogliere un numero crescente di abitanti di basso reddito. Nel far questo esploravano i bisogni e le caratteristiche della nuova città, analizzavano la relazione fra abitazioni e uso del suolo, fra abitazioni e trasporto pubblico, fra abitazioni e valori fondiari. Riflettere sulle abitazioni significava riflettere sulla città: non sorprende che molti strumenti urbanistici si siano sviluppati intorno a questo tema, compresi i regolamenti edilizi e ambientali e le procedure legali. Nella riflessione sulle abitazioni entravano anche i compiti della pubblica amministrazione: quale dovrebbe essere il suo ruolo nell’affrontare il tema della crescita urbana e la sua influenza sui valori fondiari? La crescita dei valori fondiari è un esito positivo o un ostacolo per una migliore organizzazione dello spazio? Come può operare la pubblica amministrazione per favorire lo sviluppo di abitazioni accessibili agli abitanti di basso reddito?

I modelli

Le scelte di localizzazione dell’edilizia popolare hanno influenzato le politiche urbane; trasporti, infrastrutture, servizi pubblici erano lì a disegnare la nuova città pianificata, dove un approccio razionale stava producendo una città che avrebbe dovuto funzionare meglio di quella dipendente dal mercato. Anche le tipologie edilizie furono attentamente indagate nel quadro delle politiche abitative. Edifici alti liberamente disposti nello spazio aperto, case unifamiliari organizzate in città giardino, grandi condomini a formare quartieri urbani, tutti venivano presi in esame come possibili modelli per la città nuova. La discussione che si sviluppò prendeva in considerazione aspetti economici, temi ambientali,  stili di vita e questioni morali. Amministratori e studiosi non dubitavano che un’edilizia pubblica pianificata offrisse la via migliore per affrontare i maggiori temi del governo delle città.

Il settore privato

Tuttavia, mentre gli urbanisti sembravano assumere un ruolo guida, era il settore immobiliare privato che rispondeva alla domanda di abitazioni della grande maggioranza della popolazione urbana. Le città del ventesimo secolo, con l’eccezione di quelle del campo socialista, erano costruite soprattutto dal settore privato, che si avvantaggiava grandemente della crescita dei valori fondiari, a differenza del settore pubblico, sempre alla ricerca di terreni fabbricabili a basso costo. Ma il settore privato, attento alle domande del mercato, fu capace di rispondere ai desideri dei committenti privati, più che ai più generali bisogni della città. Cercò anche, con non poco successo, di tradurre tutto questo in un autentico modello di morfologia urbana, nel quale i servizi pubblici venivano regolarmente dopo quelli privati. Le infrastrutture per le auto private sopravanzarono quelle del trasporto pubblico, i terreni fabbricabili cancellarono gli spazi pubblici aperti, la segregazione per reddito arrivò a caratterizzare la città più di quanto non si desse in passato. Il risultato fu di rendere gli abitanti delle case popolari coscienti di uno status d’inferiorità, col risultato di favorire scarsa manutenzione, vandalismo, fuga.

L’edilizia pubblica oggi

La maggior parte delle città europee ha realizzato in passato grandi patrimoni di edilizia pubblica. Molto spesso architetti e urbanisti hanno disegnato progetti che restano fra le migliori realizzazioni di quel tempo. Mutate condizioni sociali e modesto impegno amministrativo hanno collaborato nel trasformare questi complessi in aree problematiche, dove vecchie e nuove povertà costituiscono un terreno fertile per il degrado ambientale e il vandalismo. Esiste un futuro per l’edilizia pubblica? Lo Stato si sta ritirando da molte aree, comprese l’abitazione e altri servizi sociali come la sanità, i trasporti, l’istruzione. Ci sono però aree dove il settore privato da solo non è in grado di rispondere alla domanda sociale. L’accesso all’abitazione è in realtà vietato a molti, intrecciato com’è all’alto livello della disoccupazione, soprattutto giovanile, al numero crescente di persone sotto il livello di povertà, all’immobilità di un mercato che continua a presentare un numero impressionante di case sfitte, insieme ad un crescente ricorso a procedure di sfratto. Il nostro Paese si trova anche di fronte a un numero crescente d’immigrati provenienti da Paesi non europei, che entrano per vie non sempre legali. Il primo problema, per costoro, è ottenere uno status legale: l’abitazione, insieme a un lavoro, sarebbe uno strumento per un’autentica cittadinanza. Un tema sempre più grave è quello dei giovani, disoccupati o precari, strutturalmente fuori dal mercato. Poi ci sono gli studenti, spesso sfruttati dai proprietari di case: alloggi migliori e in maggiore quantità permetterebbero anche di rivedere la struttura delle tasse universitarie, giudicate da molti irrealisticamente basse. Il bisogno di una partecipazione pubblica attiva nel settore dell’abitazione (e di una riflessione profonda sulle sue modalità) non è certo scomparso: si è modificato, pur in uno scenario di tendenziale declino demografico. Davvero possiamo spezzare una tradizione che in passato si è dimostrata anche capace di affrontare innovazioni tali da trasformare il diritto alla casa in diritto alla città?

Giorgio Piccinato, 2004/2017