Intervista a Ludovica Di Falco (SCAPE)
Intervista a Ludovica Di Falco (SCAPE)
Dottorando, Dipartimento di Architettura, Roma Tre
SCAPE è uno studio italo-francese, con sedi a Parigi, Roma e Milano. In occasione della costruzione di un edificio a Parigi, nella ZAC di Clichy-Batignolles, ho incontrato Ludovica di Falco, socia fondatrice dello studio, per conoscere gli ultimi sviluppi del loro lavoro ed approfondire le differenze tra il panorama architettonico francese e quello italiano.
Clichy-Batignolles è una ZAC di Parigi, puoi spiegarci che cosa significa?
La ZAC è una Zone d’Aménagement Concerté; sono dei territori all’interno della città che vengono affidati a delle società chiamate Société d’aménagement. Questo tipo di società sono miste (pubblico/privato) e sono costituite ad hoc per definire il processo di fabbricazione con gli urbanisti, gli architetti e i committenti. In genere all’interno della stessa ZAC ci sono lotti con funzioni diverse, alcune hanno una vocazione residenziale, altre terziaria o mista, come nel caso di Clichy-Batignolles.
Quali sono le caratteristiche della ZAC di Clichy-Batignolles?
Contrariamente ad altre, questa ZAC si trova al margine della città di Parigi: Batignolles è un quartiere tradizionale, storico, estremamente strutturato e vivo (Place de Clichy e Montmartre sono lì vicine). Sono importanti anche i collegamenti visivi: dall’area si vedono i simboli di Parigi, come la Tour Eiffel e il Sacré-Cœur. Questa ZAC ha avuto il merito e la fortuna di nascere in un contesto fortemente strutturato.
C’è stata anche l‘intelligenza dei progettisti – l’urbanista François Grether e la paesaggista Jacqueline Osty – di cominciare la costruzione dal parco; una cosa molto rara che ha avuto la capacità di attrarre le persone prima ancora che la ZAC fosse viva di sue funzioni.
Quali sono state le istituzioni coinvolte?
Il comune di Parigi, tramite Paris Batignolles Aménagement (una società a partecipazione mista) e il Pavillon de l’Arsenal che è l’Urban Center di Parigi; entrambi molto attivi nel processo di fabbricazione e nella selezione dei progettisti.
Come funziona la procedura per aggiudicarsi i lotti e come sono stati selezionati gli architetti?
I lotti vengono messi in concorso per le persone che poi diventeranno il committente; per esempio, nel caso della ZAC Clichy-Batignolles, i promotori si sono dovuti aggiudicare i lotti e solo dopo hanno potuto scegliere gli architetti attraverso una procedura concorsuale.
In particolare, per una serie di lotti, era richiesto che gli architetti fossero sempre una coppia. In genere un architetto più affermato con uno più giovane. Noi abbiamo presentato la nostra candidatura assieme allo studio austriaco Baumschlager-eberle, che aveva da poco aperto a Parigi.
A questa fase è seguito un concorso, non di progettazione, ma di metodologia, dove abbiamo presentato il nostro dossier al promotore Bouygues Immobilier, che aveva già vinto l’attribuzione del lotto. Il promotore non ha però scelto da solo: nella giuria erano presenti anche le istituzioni. Questo ha fatto sì che si sia partiti su delle ottime basi.
Dov’è situato il vostro lotto?
Il nostro lotto è nella parte Ovest e affaccia direttamente sui binari. Va fatta una piccola parentesi, ancora una volta sulla struttura della ZAC: c’è una fascia (quella sopra ai binari di Saint-Lazare) che è costruita su una piastra artificiale. Questa zona è stata collegata con due passerelle al settore di Saussure, connettendo tra loro due zone della città che prima erano separate.
Su questa fascia artificiale ci saranno degli uffici che costituiranno una sorta di barriera visiva e acustica rispetto agli alloggi che invece saranno sul retro, verso il parco.
Una volta aggiudicato il lotto, quali sono state le fasi successive?
Dopo che siamo stati scelti è stato messo in piedi un Atelier assieme agli architetti degli altri cinque/sei lotti che erano vicini al nostro. L’Atelier è durato sei mesi in cui abbiamo sviluppato tutta la prima parte del progetto: prima di cominciare la progettazione vera e propria si è cercato di riflettere, tutti insieme, sulle problematiche comuni.
Ogni settimana avevamo una giornata intera per confrontarci, non solo con gli altri architetti, ma anche con l’urbanista della ZAC, il comune di Parigi e i promotori degli altri lotti; in questa giornata ognuno doveva “perdere tempo”, anche se io preferisco dire “investire tempo”. Tutte le settimane venivano circa 100 persone a confrontarsi sul lavoro, con plastici e presentazioni, in una baracca messa a disposizione nella ZAC. Personalmente sono sempre un po’ scettica sul fatto che si possa lavorare veramente tutti insieme, e quando ci si ritrova in un workshop così grande è vero che molte delle scelte sono già state prese tempo prima. Ad esempio le grandi quantità erano già state definite. Però è anche vero che c’è stato un grande lavoro per capire come fabbricare insieme un pezzo di città. Non dico che il risultato sia perfetto, ma sicuramente c’è stata la volontà di confrontarsi assieme al promotore e all’urbanista. Ognuno ha messo assieme le proprie necessità, i propri bisogni, i propri vincoli (perché non è detto che i vincoli del promotore siano meno importanti di quelli dell’architetto, anzi, molto cinicamente è lui che investe e quindi è fondamentale che lui si senta partecipe di questo processo).
Quindi le volumetrie dell’edificio sono state definite assieme agli altri studi in questa fase e poi, successivamente, ognuno ha portato avanti il proprio progetto?
Assolutamente sì. L’edificio è nato in questa fase collettiva che è stata retribuita a parte, dai singoli promotori ai propri architetti. Un investimento enorme per tutti, di tempo, di danaro, di energie intellettuali; perché l’edificio nasce abbastanza lentamente rispetto a un processo tipico in cui si fa un concept in tre settimane. Conclusa questa fase, ogni studio è tornato a casa propria e i singoli progetti si sono sviluppati indipendentemente gli uni dagli altri, ciascuno con il proprio promotore.
Ora, io non so se la ZAC di Clichy-Batignolles sia una ZAC di grande coerenza linguistica. Ma che cos’è poi la coerenza? Che cos’è una città coerente, decisa a tavolino? E’ molto difficile dirlo. Anselmi, il mio professore a Roma Tre, diceva che ciò che sa fare il tempo non lo sa fare nessun urbanista, nessun architetto. Sono la storia e il tempo che danno coerenza a questo insieme. Oggi noi viviamo in un’urgenza di costruire tanto, di costruire tutto insieme. E questo è molto difficile, perché rischi di fare quello che si è fatto negli anni settanta, cioè una serie di grandissimi edifici tutti uguali, oppure di costruire delle collezioni di oggetti. In questo caso, secondo me, c’è stato un vero tentativo di essere fra le due soluzioni. Penso sia ben riuscito, quantomeno per il modo in cui ci si vive e si possono usare questi luoghi. Perché c’è un parco, ci sono degli uffici, ci sono degli alloggi di vario tipo, di vario taglio, di varie dimensioni e vario valore. Altra cosa importante è che, in questa ZAC, ritroviamo sia alloggi sociali che alloggi privati e quindi la popolazione sarà mista. Credo che in questo senso ci sia stato un grandissimo tentativo di avere coerenza e che sia abbastanza riuscito.
In più è un territorio che corrisponde ad un’evoluzione infrastrutturale importante perché la linea 14 della metropolitana è stata estesa anche per poter servire meglio questa zona della città, quindi è veramente uno di quei casi in cui tante cose hanno concorso a costruire un nuovo quartiere dove, personalmente, sarebbe limitativo giudicare solo il risultato “estetico”. Penso che se continuiamo a identificare la bontà dell’architettura solo dal suo aspetto estetico, saremmo lontani dall’avere quelle città di cui oggi abbiamo bisogno. Al di là di questo, credo che il risultato architettonico di molti dei singoli edifici sia assolutamente positivo, lo stesso tribunale di Renzo Piano, nella sua estrema semplicità, è perfettamente riuscito. Poi sì, ci sono edifici più o meno armoniosi. C’è, per esempio, un edificio di Francis Soler – un edificio di alloggi su 13 piani fatto per il promotore Vinci Immobilier – che ho visitato sei mesi fa. Il risultato urbano e programmatico è abbastanza impressionante. Ritengo perciò che sia abbastanza esemplare come processo da seguire.
Rispetto alle tecnologie usate e alla sperimentazione?
Su questo c’è stato un grande investimento, il promotore ha voluto prendere più tempo per studiare una struttura in legno. Così abbiamo costruito un edificio di 17.000 metri quadri su otto piani con una struttura quasi completamente in legno, ad eccezione di alcuni nuclei in cemento che sono quelli di collegamento con la piastra. Per cui è stata anche un’occasione di sperimentare dei processi costruttivi nuovi. Nel nostro caso il promotore ha accettato la sfida, da noi proposta, di mettere in piedi un processo completamente BIM, dalla fase del progetto definitivo in poi: architetti, ingegneri e imprese hanno lavorato tutti sullo stesso modello numerico.
Dal mio punto di vista la ZAC di Clichy-Batignolles è estremamente interessante perché risulta esemplificativa di un certo modo di costruire la città contemporanea: ho visitato la zona di Saussure dove c’è l’edificio di LAN, un’architettura a contatto con la città consolidata, con la Parigi haussmanniana. Se il loro edificio tende a rifarsi ad un linguaggio prossimo a quel brano di città, gli edifici che gli sorgono accanto sono completamente differenti. Ciò che trovo interessante di Clichy-Batignolles è proprio questa eterogeneità: da un lato c’è una grande libertà espressiva, dall’altro ogni edificio è tenuto assieme da un importante progetto urbano che, come ci hai spiegato, è frutto di un coinvolgimento di diversi attori.
Assolutamente. C’è un processo. Ed è quello che io trovo veramente interessante di questa esperienza. Il settore dove c’è l’edificio di LAN (che è una vera riflessione sulla tipologia haussmanniana nel 2015, costruito di fronte ad un edificio di Haussmann) è stato collegato con la zona di Clichy-Batignolles e fra dieci anni non si leggerà più il limite tra i diversi quartieri. Se si prende una foto di questo settore, non quarant’anni fa, ma dieci anni fa, è impressionante. Tutta la zona era un’enclave di depositi ferroviari: era il classico vuoto urbano intoccabile e intoccato. Mentre adesso, piano piano, il limite che esisteva si sta affievolendo e fra 10 anni non esisterà più. Ed è questo che è impressionante, cioè il fatto che, con il tempo, questi limiti fra le città contemporanee e la città consolidata scompariranno. Poi ci si potrebbe chiedere: “possibile che con tutto il bisogno di costruire periferia, bisogna fare questi esperimenti proprio dentro la città di Parigi?”. Invece credo sia molto importante.
Quanto è importante intervenire all’interno della città consolidata?
E’ fondamentale. Bisogna intervenire anche nel cuore delle città, perché si può imparare molto da quello che già esiste, stando a contatto con qualcosa che già c’è, invece che prefiggersi come scopo quello di inventare la città là dove non c’è. Quello è un po’ tosto, secondo me è un’utopia che abbiamo ereditato dagli anni 60 e 70 e abbiamo capito che è veramente difficile e che la città si deve fare strato dopo strato, riutilizzando anche il tessuto urbano esistente, andando ad occupare questi vuoti. Roma in questo senso ne ha una quantità impressionante: i vuoti urbani romani, queste pause, queste interruzioni di città. Roma è vittima di questo. A Parigi puoi camminare chilometri e sembra di aver camminato mezz’ora perché non c’è soluzione di continuità.
Parigi è una città estremamente densa.
La densità di Parigi è impressionante. Roma, che è molto più grande, sembra ancora più grande, perché tra un punto e l’altro ha delle pause urbane immense. Credo che in parallelo alla riflessione sulle periferie, andrebbe fatta una riflessione su che cosa vuol dire completare, ricucire, rinnovare. Densificare, dal mio punto di vista – e non sono né la prima né l‘ultima a pensarlo – è un principio fondamentale dell’ecologia. Perché risparmiare territorio usando quello che è già stato impattato da reti, da infrastrutture, da fognature è essenziale. Questa per esempio è stata una scelta del comune di Parigi – secondo me vincente – dall’inizio degli anni duemila. Densificare, densificare, densificare. A Parigi si costruiscono sei, settemila metri quadri su parcelle di mille metri quadri. Parcheggi? Zero. Sono solo per gli alloggi. Abbiamo realizzato un edificio pubblico in un’altra ZAC di Parigi e non ci sono parcheggi. Gli unici parcheggi regolamentari sono quelli delle bicilette. Ed è lì che si parla di ecologia ed intelligenza ambientale, nel senso largo del termine. Quindi per me è veramente stimolante partecipare a questi processi, perché con piccole cose si rimettono in discussione dei credo che abbiamo tutti.
Del resto la città europea nasce e cresce su se stessa. E’ cresciuta nei secoli stratificandosi.
Roma l’ha fatto in maniera anche violentissima, fino a un certo punto, poi invece non si sa perché, si è deciso di non poterla più toccare, bisogna andare fuori. Il risultato è una periferia romana mostruosamente estesa, non servita, non irrorata e si finisce per creare una città che non funziona più. Invece densificare, densificare, densificare… A Parigi c’è un lavoro parallelo sulla periferia e sul centro della città, perché l’uno non esclude l’altro: sono parti di uno stesso sistema che è il territorio, il paesaggio urbano. Non sono due entità separate.
Hai parlato dei molti attori che costruiscono la città, c’è anche una sensibilità architettonica differente tra Parigi e Roma, tra il mondo francese e quello italiano?
Su questo io sono un pochino campanilista, nel senso che penso che un certo insegnamento dell’architettura, che abbiamo ricevuto, ad esempio in un’Università come Roma Tre, sia ancora preziosissimo e raro. Però questo scollamento totale, tra l’università e la pratica, sta affievolendo la forza di questa cultura architettonica. Trovo che la cultura architettonica, se non è viva, non vuol dire più nulla. A Parigi la differenza è che questa cultura è nutrita: vive ogni giorno. Il Pavillon de l’Arsenal, è un luogo incredibile; tutti i progetti parigini passano di là ed ospita mostre importantissime che vengono allestite con scenografie estremamente ricercate, pensate. Migliaia di visitatori. Questo non è secondario. Non può esistere una cultura architettonica se nel quotidiano non c’è chi la fruisce. In questo senso trovo che Parigi sia più fiorente, anche se le basi probabilmente sono meno solide. La bellezza di certe lezioni di architettura che ho ascoltato da Anselmi, da Cellini o da Cordeschi, raramente le ho sentite altrove. Però poi resti con una specie di bramosia di desiderio, di dire… e poi? A Parigi, al contrario, l’architettura contemporanea le persone la vivono quotidianamente: abitano in alloggi contemporanei, vanno a fare sport in palestre contemporanee, lavorano in uffici contemporanei, fatti da architetti, realizzati da persone che hanno vinto un concorso di architettura. Questo è fondamentale, almeno per me e per il modo in cui penso di voler fare questa professione.
Qual è il vostro rapporto con la cultura europea? La vostra generazione ha avuto modo di fare esperienze all’estero, come l’Erasmus. Si sente questa presenza culturale all’interno del vostro studio?
Assolutamente, io penso che oggi sia già difficile distinguere fra Italia, Francia, Europa. Penso che da quando è stato istituito l’Erasmus molte cose siano cambiate: la facilità d’accesso, il fatto che persone di vari paesi d’Europa possano venire a lavorare in uno studio senza porsi il problema di visti e permessi, ha facilitato moltissimo lo scambio. SCAPE, ad esempio, è nato come studio italiano, perché io sono italiana e qui ho studiato, ma si è aperto da subito ad un contesto internazionale ed europeo. All’inizio era veramente un’esigenza culturale. Oggi per noi, essere architetti italiani, vuol dire avere un certo sistema di valori, riconoscere di venire da una certa tradizione architettonica, culturale, costruttiva, che è prima di tutto quella della grande esperienza che va dagli anni 30 fino agli anni 70 della storia dell’architettura italiana e questo è il nostro DNA. Però, da sempre, abbiamo pensato che non si può tagliare fuori un aspetto meraviglioso del nostro mestiere che è quello del cosmopolitismo, del fatto di far parte di un contesto molto più largo di quello della città che ci ha visto nascere. Noi siamo la generazione Erasmus, noi siamo la generazione Europan.
Dopo due anni che abbiamo fondato SCAPE, abbiamo vinto il nostro primo Europan a Riga. Quindi ti senti parte di qualcosa che è, quantomeno, l’Europa. Poi, piano piano, hanno cominciato ad emergere delle contingenze, dei bisogni. Purtroppo il contesto italiano, istituzionale, politico, economico, dal mio punto di vista, per il nostro mestiere di architetti, cola a picco. Concorsi vinti e mai realizzati… abbiamo vinto questo concorso meraviglioso, per la sistemazione paesaggistica del passante di Mestre, un concorso lunghissimo per ANAS che ha preso un anno di lavoro. Un progetto fatto con Anselmi, vinto, applauditissimo.
E’ rimasto su carta?
Non ne abbiamo mai più saputo niente. Questo mestiere è una vocazione, ma è anche una professione ed io devo poter vivere di quello che faccio, devo poter mantenere uno studio, pagare dei dipendenti, crescere. E questo ci ha spinto ad affacciarci ad altre realtà, in particolare la Francia, all’inizio per un’esigenza culturale che poi col tempo è diventata una necessità e una realtà. Oggi abbiamo due persone a Milano che seguono il progetto di alloggi in Bovisa, ma il centro della nostra attività è Parigi dove siamo una squadra strutturata di una quindicina di persone che gestisce l’insieme dei progetti. Personalmente ci sono certe realtà che sicuramente m’interessano, ma in cui forse ho meno voglia di lavorare nell’immediato, come il Medio Oriente e in particolare i paesi del Golfo. Sono luoghi che conosco, ma penso che manchi il presupposto fondamentale per l’architettura, che è la volontà di costruire città e di costruire contesto. Sicuramente se si dovesse creare un’opportunità, è sempre molto stimolante, però il primo bacino d’utenza oggi è l’Europa, e in particolare questa parte d’Europa.
Credo che oggi ci sia un’esigenza di affacciarsi a un contesto largo ma anche conoscerlo da vicino. L’epoca delle mega-architetture, concepite in posti dove non si è mai neanche andati, credo sia, per fortuna, finita. Penso ci sia veramente l’esigenza per l’architetto di visitare e di conoscere il luogo in cui si lavora e anche i committenti sono sempre più esigenti. Così come avere persone di varie nazionalità nello studio è una cosa, secondo me, stimolante e che oramai è la realtà, non solo di SCAPE, ma di quasi tutti gli studi di architettura. Da sempre abbiamo avuto persone di vari paesi e adesso, stando a Parigi, è ancora più facile raccogliere questi vari apporti. Penso che faccia parte del nostro mestiere quello di guardare a degli orizzonti che non siano i limiti geografici del proprio paese.
Intervista di Flavio Graviglia a Ludovica di Falco (SCAPE)
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IMMAGINI
1. Imm. Copertina: ph. Luc Boegly, Cantiere ZAC di Clichy-Batignolles, Paris. Luglio 2017
2. Ludovica di Falco (SCAPE)
3. Plastico settore OVEST. ZAC di Clichy-Batignolles, Paris (plastico SCAPE+BAUMSCHLAGER EBERLE di ATELIER MISTO)
4. Render edificio SCAPE+BAUMSCHLAGER EBERLE, ZAC di Clichy-Batignolles, Paris. Vista binari, LUXIGON
5. Render edificio SCAPE+BAUMSCHLAGER EBERLE, ZAC di Clichy-Batignolles, Paris. Vista su strada, LUXIGON