In margine al Quaderno #18
La relazione non c’è
(in margine al Quaderno #18)
Direttore di UrbanisticaTre
Questo ritaglio de Il Paese di quasi sessanta anni fa ritrovato fra vecchie carte (probabilmente salvato dalla mia amorevole madre) mi sembra ci fornisca l’occasione di qualche considerazione. Oggi non so quanti (e io per primo) sottoscriverebbero le tesi illustrate nell’articolo, ma non so neppure se saremmo in grado di esprimere tanto appassionato impegno sui temi dell’architettura e dell’ambiente costruito. Né dobbiamo ignorare che a quella riunione, promossa da no un’associazione studentesca, ha partecipato il fior fiore della giovane architettura e urbanistica dell’epoca, sia pur tutta rigorosamente di sinistra e “romana”. Forse c’era anche la preoccupazione dei meno giovani di essere superati dalle nuove leve, ma resta il fatto, che oggi sarebbe straordinario, di una riunione intorno a tesi e non a rivendicazioni sindacali. Qui di seguito ho trascritto il testo, peraltro non firmato:
Lo stato della Facoltà di architettura e, in particolare, l’insegnamento fondamentale degli ultimi due anni, il corso di “composizione architettonica”, è stato analizzato venerdì scorso in un dibattito promosso dall’Associazione Studenti e Architetti nei locali di Comunità.
La relazione introduttiva, preparata da Giorgio Piccinato e Manfredo Tafuri, sottolineava l’incredibile involuzione formalistica che minaccia, attraverso gli insegnamenti romani, le sorti dell’architettura italiana.
A Roma infatti, e l’esposizione di alcuni progetti confermava fin troppo chiaramente queste tesi, si sta tornando alle colonne e agli archi di piacentiniana memoria. E questo non sarebbe preoccupante, se non fosse in realtà un indizio estremamente significativo della più generale involuzione della cultura e della società italiana di questi ultimi anni.
La rinuncia ad affrontare i dati autentici della realtà, nei suoi aspetti funzionali ed economici, per rifugiarsi nella ricerca degli “universali”, ha un significato politico (nella accezione più vasta del termine) estremamente grave. Si tratta infatti di <riaffermare la validità di una cultura astorica e intimamente reazionaria> poiché il pericolo evidentemente non è tanto nelle colonne quanto nell’atteggiamento fideistico e pre-illuminista che le suggerisce.
L’architetto Muratori, che è il capo di questa “nuovo corso” dell’architettura romana, non porta, sostegno delle sue formule accademiche, che le proprie personali scoperte sulla “eternità” di certi elementi formali disprezzando come “tecnica” ogni più realistica ricerca. Ma non è lecito, notava in un suo intervento l’architetto Vaccaro, che tali tristi segni si traducano nella costruzione di intere città o, peggio, nell’insegnamento impartito ai futuri architetti. La nostalgia del passato non è che disperazione, sottolineava l’architetto Libera, chiarendo come sia altrimenti da lui svolto il corso di composizione architettonica alla Università di Firenze.
L’architetto Campos Venuti riaffermava la necessità di distinguere tra le discussioni e le critiche che si possono fare all’interno delle correnti moderne (si riferiva all’architetto Ridolfi del quale portava il saluto agli studenti) e la lotta che bisogna impegnare contro le posizioni più retrive, mentre l’architetto Dall’Olio sosteneva la necessità d’un impegno totale, anche se rischioso, nei problemi della cultura contemporanea. Impegno che, secondo l’architetto Lambertucci, andrebbe rivolto soprattutto verso la scuola, mentre per l’arch. Manieri Elia il pericolo di rifioriture accademiche si prospetterebbe nell’intero paese.
In definitiva appariva chiaro come tutti i presenti si trovassero in completo accordo con la relazione introduttiva e invitassero gli studenti di architettura a proseguire con fermezza l’azione intrapresa.
Erano presenti tra l’altro gli architetti Montuori, Gorio, Fiorentino, Lenci, Anversa, Aymonino, Cocchia, Vittoria, Bruschi, Barucci, Amaturo, Sacco e Manzone, molti dei quali assistenti universitari.