CURA: Oltre la crisi
Immagine di copertina: foto di Martina Pietropaoli
Abstract
Nel contesto delle attuali crisi urbane, la riflessione sulla cura emerge come una chiave di lettura e di trasformazione dello spazio. Attraverso il lavoro di teorici/he come Pulcini, Botti, Gilligan, Stavrides,il seminario La cura come progetto ha esplorato la vulnerabilità come intrinseca condizione umana e l’interdipendenza come base per una nuova etica relazionale. La città, storicamente macchina di integrazione o esclusione, viene analizzata in relazione alla produzione e riproduzione di ciò che è in comune, mettendo in discussione i confini tra pubblico e privato. Attraverso una serie di letture e un esercizio finale di riconoscimento, il gruppo di studentə ha individuato pratiche di cura nello spazio urbano, evidenziando tensioni tra interessi collettivi e desideri individuali, nonché la difficoltà di costruire un’autentica coesistenza contaminante. Il concetto di cura, più che un’astrazione etica, si configura come uno strumento politico di resistenza e trasformazione spaziale. Attraverso tale “inclinazione” verso l’alterità, larchitettura e l’urbanistica possono farsi promotrici di processi di emancipazione, stimolando pratiche di solidarietà, reciprocità e costruzione collettiva dello spazio comune.
English abstract
In the context of current urban crises, the concept of care emerges as a key lens for interpreting and transforming space. Drawing on the work of theorists such as Pulcini, Botti, Gilligan, and Stavrides, the seminar ‘Care as a Project’ explored vulnerability as an intrinsic human condition and interdependence as the foundation for a new relational ethic.
The city, historically a machine for integration or exclusion, is analyzed in relation to the production and reproduction of what is common, questioning the boundaries between public and private. Through a series of readings and a final recognition exercise, the group of students identified practices of care within urban space, highlighting tensions between collective interests and individual desires, as well as the difficulty of fostering a truly transformative coexistence.
The concept of care, rather than being merely an ethical abstraction, emerges as a political tool for resistance and spatial transformation. Through this “inclination” towards otherness, architecture and urban planning can become catalysts for emancipation, fostering practices of solidarity, reciprocity, and the collective construction of common space.
Biografia autore
Dottoranda in Architettura Città Paesaggio all’Università degli Studi Roma Tre. Attualmente nello stesso ateneo è assistente alla didattica per i corsi di “Critica dell’urbano”, “Territorio, ambiente e paesaggi (TAP)” e al Politecnico di Torino per il corso di “Urbanistica”. Svolge attività di ricerca su temi legati alle politiche di pianificazione di carattere estrattivo in contesti del sud globale, al rapporto tra debito privato e processi di produzione spaziale e alle infrastrutture di cura nei contesti rurali andini.
Author’s biography
PhD candidate in Architecture City Landscape at the University of Roma Tre. Currently, she is a teaching assistant at the same university for the courses Critica dell’urbano and Territorio, ambiente e paesaggi (TAP), as well as at the Politecnico di Torino for the Urban Planning course. Her research focuses on extractive planning policies in Global South contexts, the relationship between private debt and spatial production processes, and care infrastructures in Andean rural areas.
Riflessioni etico-politiche per la produzione di mondi in comune
In un contesto di crisi relazionale nella città contemporanea, la paura, il commoning, l’interdipendenza sono alcune delle nozioni che emergono all’interno della concettualizzazione della postura della “cura”. Ma cosa ha a che fare tutto ciò con le pratiche di cura? Chi ha riflettuto sulla cura? In che modo possiamo, come progettistə, leggere una “città della cura” e immaginare una città che stimoli la cura?
All’interno del corso Studi urbani. Spazio e comunità, svolto tra dicembre e gennaio del 2025, i seminari La cura come progetto si sono sviluppati attraverso letture ad alta voce, accuratamente selezionate da Giovanni Caudo, Martina Pietropaoli e Virginia Musso. Questi incontri hanno cercato di rispondere a diverse domande ripercorrendo gli studi di teorici/che, filosofi/e, geografi, architetti/e e urbanisti/e che hanno elaborato le nozioni di cura da diverse prospettive femministe. In particolare, questi studi hanno contribuito a teorizzare la cura come un’alternativa risolutiva alle molteplici crisi attuali.
Nel tentativo di raccogliere alcuni momenti chiave di queste letture, occorre partire dall’opera di Pulcini (2009) – prima lettura condivisa nei seminari – nella quale l’autrice mette in discussione, all’interno di una dimensione etico-politica, la relazione tra il sé e l’altro. Pulcini analizza il tema della separazione come un processo duplice: da un lato, il processo di individualismo illimitato, che nega le relazioni di dipendenza, e dall’altro, il comunitarismo endogamico. Questa seconda posizione è condivisa anche da Stavrides con l’esempio delle gated communities, come riferimento rischioso in quanto sistema sociale che, pur essendo comunitario, è chiuso e quindi escludente. Il parametro che ci porta a chiuderci in una di queste categorie è la paura.
Autrici come Joan Tronto, Carol Gilligan e Judith Butler concordano nell’assumere la vulnerabilità come chiave per affrontare il problema di un’umanità fragile e dipendente, e quindi bisognosa di cure, e porci di fronte all’’interdipendenza alla quale siamo soggetti. Una necessità e, reciprocamente, una responsabilità. La vulnerabilità rimanda alla fragilità del tessuto stesso della nostra esperienza di noi e degli altri. Per questa ragione, assumere la vulnerabilità in quanto tale significa assumere la cura e, di conseguenza, prendersi cura degli altri in un senso “glocale”, ovvero una cura che supera il benessere individuale e consideri questa fragilità come un fattore proprio dell’esperienza del vivere contemporaneo nell’epoca globale. Come direbbe Caterina Botti, “questa assunzione debba dare luogo a una moralità che non veda nell’altro un nemico che minaccia la nostra vulnerabilità, quanto piuttosto ad una che vede l’altro come un simile, proprio a motivo della comune vulnerabilità” (Botti, 2018, p.17). Di conseguenza, diventa cruciale riconoscere quali sono le reti relazionali che ci sostengono e che noi stessi e noi stesse sosteniamo nell’assumerci come società vulnerabile. Per estrapolare questo presupposto, vorrei riproporre una delle domande poste nel prezioso seminario da Virginia Musso alla filosofa Caterina Botti, che ha contribuito nell’ultima giornata: Come si può politicizzare la cura?
Innanzitutto la genealogia della ‘cura’ viene da una radice femminista. Silvia Federici (2019) sostiene che il capitalismo si origina e dipende dal lavoro riproduttivo, assegnato a determinati corpi (donne, migranti, soggetti razzializzati) e spazi (il privato), esonerando Stato e mercato da ogni responsabilità. Questo “deficit delle cure”, come direbbe Nancy Fraser (2016) riflette le contraddizioni del capitalismo. Tuttavia, questa posizione delle femministe marxiste è stata oggetto di dibattito nei diversi incontri: pur senza negare il ruolo indiscutibile di denuncia e l’importanza di porre al centro il tema delle cure nel dibattito contemporaneo, dal punto di vista del “come possiamo ribaltarlo”, come argomentava Caterina Botti, si rivela inoperabile.
Per questo motivo, le letture proposte nei seminari insistono nell’affrontare l’etica della cura, che cerca di comprendere la relazionalità degli esseri umani, costruita e ricostruita, come direbbe Held, contrapponendola alle epistemologie razionaliste. In questo contesto, il riconoscimento e la potenzialità relazionale delle emozioni come la simpatia, l’empatia, la sensibilità e la responsività assumono un ruolo centrale.
Le posizioni di Gilligan e Tronto permettono di materializzare la nozione di cura nella seguente definizione: “È tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro mondo, per viverci al meglio”. Un altro nodo importante è dato dal fatto che nel pensiero contemporaneo, soprattutto in inglese, il concetto di cura si comprende attraverso due termini: care e matter. Care si riferisce alla cura come pratica affettiva, etica e sociale, mentre matter rimanda alla sua materialità, a ciò che conta e all’assunzione di responsabilità. In questo senso, la nozione di matter si collega alla posizione di Pulcini, poiché entrambe convergono nell’idea di “responsabilità”.
Assumere la responsabilità non implica un approccio paternalista, ma una comprensione dell’interdipendenza: riconoscere che la vulnerabilità dell’altro mi riguarda e che, prendendomi cura (in modo affettivo e politico), contribuisco alla riparazione e al miglioramento non solo personale, ma anche collettivo e globale, su molteplici scale. Silvia Rivera Cusicanqui chiama questo approccio “micropolitica”, ovvero assumere la cura non solo nella sua dimensione materiale, fisica e psicologica, ma anche in termini di agency. Ciò implica riconoscere il ruolo dei soggetti umani e non umani nella produzione della cura e nell’attivazione di processi che trasformano la dimensione pubblica e sociale.
Il fatto di assumerci come soggetti vulnerabili e di non vedere l’altro/l’altra come un nemico/una nemica, all’interno di un contesto di differenza, appare già una grande sfida, in cui la paura e la sicurezza individuale si sono radicate. In particolare, essendo consapevoli della responsabilità che l’architettura e l’urbanistica hanno esercitato in queste dinamiche. Il nominato titolo di un libro e motto Stay with the trouble di Haraway (2016) implica anche l’assunzione dell’erosione dello spazio comune. In linea con il pensiero di Haraway (ibidem) e come scrive Stavrides (2022), una delle letture del corso, l’esplorazione della potenzialità emancipatoria della coesistenza contaminante, della cooperazione, della collaborazione e della comunicazione apre un mondo di sfide e negoziazioni per andare oltre il capitalismo.
I tentativi di diversi/e teorici e teoriche di concettualizzare la cura rispondono a una questione di “rappresentazione”. La posizione e l’inclinazione etico-politica (Cavarero, 2013) fanno parte della capacità e della potenzialità che abbiamo come soggetti interdipendenti nella complessa impresa di trasformare la crisi urbana, separatista ed escludente, in cui ci troviamo oggi come umanità. Dove ci troviamo?
Come direbbe Secchi (2013), è attraverso la questione regolatrice che la città è stata di volta in volta una macchina di integrazione o di esclusione sociale. Così come l’urbanistica e l’architettura hanno avuto un ruolo di responsabilità nell’aggravamento delle disuguaglianze, allo stesso modo possiedono la capacità di stimolare la produzione e riproduzione di dinamiche sociali che mirano a distruggere i confini tra privato e pubblico. La città, come un vero e proprio campo, come commons, direbbe Stavros Stavrides, rivela l’intrinseca politicità e il potenziale trasformativo di stimolare la produzione del comune e dell’incontro. L’esempio dello “spazio di soglia” arriva come suggerimento di una via di fuga: un luogo aperto a soggettività alternative e a futuri collettivi, rappresenta un riferimento per immaginare spazialità che superino l’astrazione dell’interazione e che si arricchiscano di ecologie affettive come la solidarietà e la reciprocità.
La chiusura dei seminari lascia sicuramente una fessura nelle riflessioni, analisi e immaginari degli spazi (pubblici, privati, comuni e altre fugacità). Per cercare di rispondere alla domanda iniziale del seminario: in che modo il concetto di cura può informare i processi di trasformazione dello spazio urbano? L’esercizio degli studentə è stato fondamentale per tracciare delle traiettorie di sovversione. L’intenzione era di riconoscere, attraverso le diverse nozioni di cura, uno spazio in cui si esercitassero queste pratiche attraverso cui “abitare la cura”. In primo luogo, nelle proposte emerse nell’esercitazione discussa in due giornate (che ha portato a discutere su casi romani e internazionali) era un minimo comune denominatore l’agency delle relazioni comunitarie, spesso poco riconosciute, come lotte in contrapposizione alle politiche e alle attuali forme di ordine urbano. Allo stesso tempo, si è discusso delle diverse forme di negoziazioni quotidiane che avvengono con proprietari/proprietarie, istituzioni e legislazioni e che incidono sulle configurazioni spaziali e la gestione dei luoghi. D’altra parte, si intravede anche che il commoning di cui parla Stavrides è ancora irraggiungibile:concepire la città come un sistema aperto e condiviso è una modalità emersa dalle pratiche ma ancora non acquisita completamente nel modo in cui si amministrano le città. In alcuni casi si notavano gli interessi individuali della comunità chiusa. In altre parole, si assumeva la vulnerabilità propria e dei/delle “propri/e” (vicini, co-worker, ecc.), ma non tanto la vulnerabilità nella differenza e la coesistenza contaminante.
La cura e lo spazio comune, attraverso queste letture, oltrepassano la posizione del mestiere, nel senso che non si tratta solo di uno sguardo astratto o assistenzialista in termini progettuali, ma che gran parte dei silenzi tra le discussioni ci portavano a interrogarci sulle soggettività individuali. Perché lo spazio del commoning non è un prerequisito, come dice Stavrides. Funziona come un processo autotrofo, di auto-riproduzione, che alimenta spazi o mezzi, soggetti/soggette e relazioni. Quindi, senza l’iniziazione, la stimolazione e la manifestazione di questo tipo di dinamiche di coesistenza, la realizzazione di spazi di cura, senza soggetti politici/soggette politiche che li alimentino e li emancipino, si banalizza. Politicizzare la cura e portarla nella questione urbana significa trasformarla da una nozione di etica relazionale a uno strumento di lotta collettiva nell’ambito della pianificazione urbana e della giustizia spaziale, come forma di resistenza e continua trasformazione strutturale.
Bibliografia
Botti, C. 2018. Cura e differenza: ripensare l’etica. Italia: LED, Edizioni universitarie di lettere economia diritto.
Decandia, L. 2019. Riandare alle origini per scardinare l’idea di città patriarcale e immaginare altre forme di urbanità possibili. In: Belingardi C., Castelli F., Olcuire S., a cura di, (2019). La Libertà è una Passeggiata. Donne e spazi urbani tra violenza strutturale e autodeterminazione. Roma.
Federici S. 2013. Revolution at Point Zero: Domestic Work, Reproduction, and Feminist Struggles. Oakland
– 2011. Women, Land Struggles, and the Reconstruction of the Commons. Working USA: The Journal of Labor and Society.
Fraser, N. 2016. Contradictions of capital and care. New Left Review, London.
Haraway, D. 2016. Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene. Durham: Duke University Press.
Secchi, B. 2013. La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Bari.
Stavrides, S. 2022. Spazio comune. Città come commoning,Fano, Agenzia X
Pulcini, E. 2009. La cura del mondo: paura e responsabilità nell’età globale. Bollati Boringhieri.
