ADIEU AU LANGAGE #02
ADIEU AU LANGAGE #02: Architettura Impressionista
Dottorando, Dipartimento di Architettura, Roma Tre
Problema semantico n.1 – La Gricia
L’attuale condizione architettonica è sintetizzabile attraverso un interessante esempio culinario: la pasta alla Gricia. Guanciale, pecorino e pepe; niente di più semplice. Se una mattina ci alzassimo con una vena particolarmente creativa, potremmo aggiungere dei carciofi, servendo a tavola una Gricia con i carciofi. Abbiamo esercitato una variazione alla stessa ricetta; ma se al piatto originale, al posto dei carciofi, aggiungessimo del pomodoro, ci troveremmo di fronte ad una pasta all’amatriciana. Accade qualcosa di singolare: cambia nome. Siamo costretti a modificare il termine che utilizziamo per comunicare agli altri quello che stiamo cucinando.
Se ci interrogassimo sul perché l’aggiunta di un elemento è capace, nel primo caso di sottolinearne il gusto principale, restituendone una diversa sfumatura, e nel secondo caso di modificare la pietanza, tanto da cambiarle nome, ci troveremmo di fronte ad un problema semantico: l’alterazione del piatto in questione identifica la relazione tra il linguaggio (i termini con cui denominiamo, riconosciamo e comunichiamo una pietanza) e la percezione (la sensazione al palato del prodotto cucinato, il suo gusto).
Siamo capaci di descrivere in che modo una variazione armonica, causata dall’aggiunta di un singolo elemento, sia in grado di originare uno stravolgimento dell’opera, tanto da doverla denominare con un differente termine? Dove possiamo segnare il confine che determina la mutazione dell’accordo semantico di una Gricia con i carciofi e di una Gricia con il pomodoro (Amatriciana)?
Problema semantico n.2 – L’Estetica
I cuochi bravi modificano le ricette, è vero. Ma sono in pochi. Pochissimi eletti che, attraverso intuito, preparazione e creatività riescono ad ideare un piatto innovativo. Ma che cosa accadrebbe se l’eccezione creativa dell’alta cucina fosse tradotta nella regola quotidiana della trattoria sotto casa? Un paradosso in cui ciascun cuoco, al di là della propria esperienza o bravura, si sentisse giustificato ad abbandonare le ricette e i piatti della tradizione per iniziare ad inventarne ogni giorno di nuovi. Non essendo più capaci di catalogarli, poiché le parole con le quali si identificavano le pietanze avrebbero perso o mutato significato, l’unica cosa che rimarrebbe da fare sarebbe di volta in volta assaggiarli, ed uno ad uno giudicarli, attraverso il nostro soggettivo e personale senso del gusto. Il rapporto tra noi e la pietanza si sposterebbe da un piano di comprensione semantica, che ne permetteva la conoscenza e la riconoscibilità del prodotto, ad una sfera puramente sensoriale e fenomenologica di subalternità rispetto al nostro palato, trasferendo la problematica in un campo esclusivamente estetico.
Per Estetica si intende la relazione percettiva che si istaura tra noi e l’oggetto in questione; Il termine, neologismo introdotto dal tedesco Baumgarten nella seconda metà del XVIII secolo, deriva dalla parola greca αισθητικος (aistetikos, sensibile) e dal tema di αισθάνομαι (aisthànomai, percepisco tramite i sensi) e di αἴσθησις (aisthesis, sensazione, sentimento); un approccio estetico con una pietanza non si riduce al giudizio del suo aspetto esteriore, ma allo stimolo percettivo che otteniamo assaggiandolo. Traslando la metafora culinaria nella sfera architettonica, si definisce Estetica dell’Architettura lo studio delle percezioni e delle relazioni sensoriali che sussistono tra noi e la spazialità che l’edificio determina.
Problema semantico n.3 – I Sensi
Trenta dipinti. Bruma normanna, freddo invernale. Il sole nasce, cresce e muore. E’ il febbraio del 1892, quando Claude Monet iniziò a dipingere la prima delle tele riguardanti la Cattedrale di Rouen. Nei due anni successivi ne dipingerà altre ventinove, tutte raffiguranti la stessa facciata. A mutare è la luce, il clima, l’atmosfera. Le sensazioni della giornata rimangono impresse sui dipinti, svelando il susseguirsi di differenti emozioni.
La storia era iniziata vent’anni prima a Le Havre, città normanna sull’estuario della Senna, dove Monet dipinse en plein air, Impression Soleil levant, una rappresentazione dell’alba sul porto cittadino. L’importanza della tela fu tale che dal suo titolo prese nome l’intero movimento. Impressionisti fu il nome dispregiativo con cui il critico francese Louis Leroy li aveva ironicamente apostrofati il 15 aprile 1874, quando vide per la prima volta il quadro di Monet esposto nello studio del fotografo Nadar [1], nella mostra parigina della Societé anonyme des peintres, sculpteurs et graveurs in un edificio al secondo piano di Boulevard des Capucines. Non vi sarebbe stato luogo migliore di un gabinetto fotografico per ospitare le prime tele dei pittori rifiutati al Salon [2] per evidenziare la relazione che, sin dal principio, legò la corrente artistica di Monet allo sviluppo delle tecniche fotografiche. Se il processo che portò al radicale mutamento dell’arte pittorica nella seconda metà dell’ottocento non è unicamente ascrivibile all’avvento della fotografia, la loro reciproca influenza è universalmente nota. La fotografia permise all’arte di emanciparsi dal compito di μίμησις [3] della natura, concedendo alla pittura di riprodurre su tela sensazioni e percezioni visive dell’ambiente circostante. Profumi, odori e sapori passavano dall’essere uno degli elementi della composizione artistica a divenire i soggetti stessi dell’espressione pittorica.
Se il passaggio tra il linguaggio accademico dell’arte ottocentesca e l’esaltazione sensoriale delle opere Impressioniste è facilmente individuabile nella produzione artistica, in architettura la questione risulta essere profondamente più complessa. Non solo perché nella gestazione di un edificio entrano in gioco una quantità maggiore di fattori che contribuiscono a condizionarne la costruzione, ma perché la causa principale del mutamento del linguaggio non è rintracciabile esclusivamente all’avvento della fotografia, quanto piuttosto al meccanismo di condivisione e comunicazione delle fotografie prodotte. La creazione del contesto virtuale [4], ha imposto ad ogni edificio di relazionarsi con una moltitudine infinita di differenti fattori, imparagonabili per numero a quelli del contesto fisico. L’ampliamento della comunicazione ha depauperato le relazioni con il territorio d’appartenenza, assecondando il proliferare di personali stilemi e favorendo la diffusione di architetture in grado di essere accolte su scala mondiale.
Linguaggio Impressionista
Per illustrare la relazione tra linguaggio e percezione abbiamo ipotizzato un mondo in cui si fosse persa la capacità di catalogare le pietanze. Un mondo in cui ciascun cuoco, abbandonate le ricette tradizionali, iniziasse ad inventare ogni giorno un piatto sempre differente. In mancanza di un accordo semantico tra la pietanza e il termine da utilizzare, il linguaggio gastronomico si snaturerebbe, ripiegando verso una comunicazione di pura percezione. Tale società avrebbe alla base un unico motto: assaggiare per conoscere. Un paradosso culinario che non appare troppo distante dalla condizione architettonica contemporanea dove sembra essersi persa la facoltà di esprimere linguaggi condivisi; ogni progettista sembra esercitarsi nell’inventare, di volta in volta, un proprio stilema, retrocedendo ad una comunicazione che privilegia lo stimolo sensoriale, alternando interessanti ed innovative concezioni spaziali a banali scenografie pubblicitarie. Architetture che fanno dell’impressione sensibile argomento principale della composizione, difficilmente catalogabili perché capaci di contenere infinite variabili.
Come nella pittura Impressionista i sensi passano dall’essere uno degli elementi del linguaggio dell’opera, ad elevarsi a soggetto determinante della composizione. La percezione dello spazio e lo stimolo sensoriale acquistano nel mondo globalizzato una posizione di elevata importanza poiché, una volta abbandonati i linguaggi accademici, rappresentano uno dei pochi argomenti su cui poter istaurare un dialogo collettivo, anche con culture assai distanti da quella di provenienza. L’atmosfera dello spazio, la capacità di stupire esercitando i sensi, la fotogenia di un ambiente riproducibile in infinite immagini, sono divenuti componenti indispensabili all’architettura per sopravvivere nella confusione semantica del contesto virtuale; una torre di babele che apparentemente tutto accetta e nulla rifiuta.Visitandola si apre davanti ai nostri occhi uno scenario di singolare disordine, stimolante nella sua dichiarata superficialità. Se da un lato si sente l’esigenza di ristabilire delle regole, capaci di spingerci oltre alla mera percezione sensoriale, dall’altro, l’esaltazione del sensibile, instaura un meccanismo seduttivo e perturbante al punto da spingerci a compiere l’unico gesto che queste architetture ci richiedono: assaggiare per conoscere. Il mondo del sensibile appare oggi come uno dei pochi argomenti dove poter ridiscutere le basi di un linguaggio architettonico che non sia semplicemente somma di personali stilemi ma territorio di dibattito collettivo.
Parigi, Febbraio 2016
Note
[1] Nadar, pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon, fotografo, scrittore e caricaturista francese, nato il 5 aprile del 1820 e morto il 20 marzo 1910 a Parigi.
[2] Il Salon fu un esposizione ufficiale d’arte francese; si svolse dal XVII al XIX secolo all’interno del Louvre di Parigi.
[3] Mimèsi – s. f. (dal gr. μίμησις der. di μιμέομαι «imitare»), letter. imitazione. [Treccani]
[4] Per approfondire la nozione di contesto virtuale consultare l’articolo “ADIEU AU LANGAGE #01: Contesto fisico vs Contesto virtuale”, pubblicato su UrbanisticaTre nel gennaio 2016.
Bibliografia
Hegel G.W.F. 2014, Lezioni di Estetica (corso del 1823), Editori Laterza
Krauss R. 1990, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano
Rocca E. 2008. Estetica e Architettura, Il Mulino, Bologna
Vidler A. 2002, Warped Space: Art, Architecture, and Anxiety in Modern Culture, The MIT Press, Cambridge
Immagini
[Immagine Copertina]: Claude Monet, Série des Cathédrales de Rouen, dipinti tra il 1892 e il 1894.
[Immagine A] : Claude Monet, Impression, Soleil levant, 1872, Olio su tela, 48×63 cm
[Immagine B] : Giovanni Battista Piranesi, Carceri d’Invenzione, tavola VII