ADIEU AU LANGAGE #05. L’Architettura della Moda

ADIEU AU LANGAGE #05. L’Architettura della Moda

ADIEU AU LANGAGE #05. L’Architettura della Moda

di Flavio Graviglia

Dottorando, Dipartimento di Architettura, Roma Tre

 

<Abitare> [in lat. habitare] è un intensivo di <habeo> [in italiano avere]. Il termine cela nella sua etimologia un sentimento di possesso, di appropriazione: <abitare un luogo> significa appropriarsi, fisicamente e/o concettualmente, di uno spazio. Da notare come nella lingua italiana la prima persona dell’indicativo presente del verbo abitare: <io abito>, utilizzi il medesimo significante del sostantivo che si adopera per indicare l’indumento: <l’abito>. La stessa parola è impiegata per esprimere sia l’appropriarsi di un luogo <io abito nella mia casa>, sia l’appropriazione figurata di ciò che indossiamo <io vesto un abito>.

La relazione tra la moda e l’architettura è antica quanto il vocabolo stesso, ma è solo negli ultimi decenni che i legami tra le due discipline si sono intensificati, intrecciandosi, talvolta, sino a sovrapporsi. Nella società contemporanea, la staticità e la durabilità dell’oggetto architettonico ha incontrato il mondo cangiante della moda in uno specifico luogo, capace di contenere identità e comunicazione del prodotto: il <Flagship store>.

Imm C Foto di Santi Caleca, Flagship store Valentino, Roma, arch. David Chipperfield

 

<Flagship store> e spazio esperienziale

Si definisce flagship store (o concept store) quella tipologia di negozi che non mira semplicemente a vendere un prodotto ma a creare, attraverso l’architettura, un’atmosfera che possa identificare il brand della casa. Nel campo delle nuove tecnologie l’esempio più rilevante sono gli <Apple Store>; negozi in cui l’estetica del prodotto si sovrappone a quella dell’edificio; se l’oggetto che si vende è caratterizzato da leggerezza e trasparenza, anche l’ambiente evocherà le stesse sensazioni. I Concept store sono contraddistinti da uno <spazio esperienziale>, dove il cliente è invitato a divenire un attore sulla scena e non un mero spettatore o semplice consumatore.

<I nuovi flagship store dei più importanti brand del fashion system – scrive Marenco Mores in Architettura dei territori ibridi – danno origine a luoghi ibridi, simili a quelli che Marc Augé definisce “non luoghi”: spazi in cui l’esperienza dell’acquisto non è l’obiettivo finale principale, ma al contrario si propone un’esperienza sensoriale tout court. Lo “spettatore-cliente” deve conservare tracce di un ricordo sensibile, un’atmosfera, scoprire un lifestyle in cui identificarsi, trovare rifugio, sognare e condividere un sistema estetico e valoriale> [1].

I precursori di questo sistema di comunicazione furono negli anni ottanta i negozi dello stilista Ralph Lauren, quando inaugurò nel 1986 a New York il primo concept store, un edificio che riuniva, attraverso l’arredamento e l’ambiente del palazzo, tutti quegli elementi capaci di comunicare la filosofia del suo prodotto: quadri raffiguranti eleganti cavalli, sofà e poltrone rivestite di pelle, oggetti da salotto quotidiano, una particolare illuminazione attenta alle tonalità cromatiche; l’edificio di Ralph Lauren traduceva un’estetica anglosassone all’interno del frenetico mondo newyorchese, invogliando non solo l’acquisto del prodotto ma anche lo stile di vita esposto dal modello di riferimento.

Questo tipo di edifici si svilupparono nei punti nevralgici delle città, divenendo dei luoghi attrattivi su scala nazionale e talvolta internazionale, progettati dai più importanti architetti contemporanei; celebre è il quartiere Omontesandō di Tokyo, universalmente riconosciuto come una delle maggiori vie dello shopping mondiale. Distrutto dal terremoto del 1923 e dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, diviene nel corso del novecento sede delle principali boutique di moda, caratterizzando il volto urbano del consumismo giapponese. Nella zona sono presenti numerosi marchi internazionali, con edifici progettati dai più importanti studi di architettura: Prada (Herzog & de Meuron, 2003), Tod’s (Toyo Ito, 2004), Louis Vuitton (Jun Aoki, 2002), Dior (SANAA, 2014), Chanel e Bulgari (nel complesso commerciale Gyre, MVRDV, 2007), Valentino (David Chipperfield 2016) il centro commerciale Omontesandō Hills (Tadao Andō, 2005).

Non è un caso che la caratteristica che accomuna questi negozi sia la creazione di una particolare atmosfera che rende riconoscibile l’identità del marchio di riferimento; entrando in queste boutique ci si sente partecipi di un’esperienza estetica che stimola la totalità dei sensi, non solo la vista, ma anche l’udito e l’olfatto: l’intento dei progettisti è invitare i clienti a comprare <un’emozione più che un bene> [2]. Lo spazio diviene un luogo esperienziale; la percezione, il cuore della progettazione. L’architettura si ripropone di comunicare l’identità del brand, prima ancora che la vendita del prodotto – point of permanence (luogo di relazioni) al posto di point of purchase (luogo di acquisto). Gli oggetti esposti sono in continuità estetica con l’edificio che li espone, in un’architettura che non cambia a seconda del luogo ma che appare dello stesso aspetto in qualsiasi parte del mondo si trovi.

Questo perché, in un mondo globalizzato, la percezione dello spazio e la stimolazione dei sensi acquistano maggiore rilevanza, poiché si basano su uno dei pochi argomenti capaci di istaurare un dialogo collettivo, anche con culture evidentemente distanti da quella di provenienza. I recenti studi dei neuroscienziati [esposti nel precedente articolo ADIEAU AU LANGAGE #04 [3]] ci permettono di analizzare quali sono quegli elementi che sollecitano il nostro sistema neuronale, ridimensionando le differenze culturali di ciascuno di noi; fattori capaci di evidenziare le condizioni che rendono una determinata architettura condivisibile su scala internazionale e maggiormente spendibile all’interno di un mercato globale.

In tale sistema comunicativo ha acquisito maggiore rilievo un approccio percettivo con lo spazio del costruito; la stimolazione dei sensi è passata dall’essere uno degli elementi del linguaggio architettonico ad elevarsi a soggetto determinante della composizione, al punto che le atmosfere di un edificio sembrano essere divenute il collante di un linguaggio architettonico internazionale, privo di sovrastrutture culturali e fondato sulla percezione sensoriale dello spazio: un flagship store di Valentino comunica, attraverso l’architettura, la stessa percezione dello spazio ad un pubblico geograficamente e culturalmente diverso, come quello di Roma, New York, Londra, Tokyo e Hong Kong.

David Chipperfield e Valentino

La relazione tra la Maison Valentino e l’architettura è di lungo corso, basti ricordare l’esposizione tenutasi all’Ara Pacis di Roma nell’estate del 2007 per celebrare i 45 anni dello stilista italiano [4], con un allestimento firmato da Antonio Monfreda e Patrick Kinmonth (che avevano curato l’anno precedente una mostra dedicata alla moda inglese al Metropolitan Museum of Art di New York: <AngloMania: Tradition and Transgression in British Fashion> [5]). All’interno del museo progettato dall’architetto Richard Meier fu istallata una scenografia di circa 360 abiti che contornava e dialogava con l’antico monumento.Imm A

Dal 2012 la maison italiana ha iniziato una proficua collaborazione con David Chipperfield inaugurando il flagship Valentino di Milano in via Montenapoleone; l’architetto inglese, già conosciuto nel mondo della moda per aver progettato i negozi di Issey Miyake e Dolce & Gabbana, lavorerà con la Direzione Creativa di Valentino all’apertura delle sedi in numerose località del mondo: Hong Kong (Canton Road), Parigi (Saint-Honoré, Shanghai (IAPM), New York (Fifth Avenue), Roma (Piazza di Spagna), Londra (Old Bond Street), Tokyo (Omotesando).

La novità più rilevante, nata da questa collaborazione, è il tentativo di presentare lo spazio come un palazzo – non un semplice negozio, ma una successione di stanze personali che trasmettono la percezione di un luogo domestico, accessibile e al contempo elitario – un approccio concettualmente differente dall’abituale tipologia degli showroom. A caratterizzare questa esperienza spaziale è l’uso dei materiali:

<Le finiture delle pareti variano dal vetro sabbiato disposto su entrambi i lati, per giocare con effetti di riflessione contrapposti, a superfici verticali realizzate secondo un vibratile “effetto tenda”, ottenuto attraverso la sequenza ritmata di pannelli con onde estruse in gesso. Altri ambienti si mostrano attraverso il disegno di geometrie cartesiane, come la preziosa scacchiera in marmo bianco e nero del pavimento antistante la zona dei collegamenti verticali, alternati a spazi più intimi e introversi come le stanze intarsiate di noce americano che esaltano le capacità manuali e manifatturiere della maison, contrapposte alle pareti degli spogliatoi rivestite in pelle per evocare un maggior senso di intimità e accoglienza. Unico elemento di continuità che lega matericamente le diverse stanze è una cornice continua realizzata in terrazzo alla veneziana, che corre in ogni vano secondo un unico disegno e che caratterizza l’infilata dei diversi ambienti. Lo stesso materiale viene impiegato nella definizione delle aperture a sottolineare, attraverso una serie di pregiati portali, il notevole spessore dei muri dell’edificio. La continuità tra le camere è inoltre garantita dalla dimensione a tutta altezza delle porte così da generare unicità alla sequenza spaziale> [6].

Questo spazio esperienziale, gestito da un uso <sartoriale> [7] dell’accostamento dei materiali, riserva grande importanza al ruolo della luce: diretta a led, per illuminare i prodotti esposti – calda e <decorativa> [8], per gli ambienti domestici di vendita. La scala, monumentale, illuminata da un imponente lampadario in vetro che si sviluppa nel vuoto centrale, contribuisce ad evocare una particolare atmosfera all’ambiente. E’ proprio la gestione di questa atmosfera, rappresentata egregiamente nelle fotografie di Santi Caleca [9], che permette di unire due diverse identità, quella del marchio dello stilista e quella propria del progettista; attraverso la gestione della sensibilità dello spazio, l’architettura trova una sintesi tra due autografie, esercitandosi in un difficile equilibrio delle parti.

Imm BFoto di Santi Caleca, Flagship store Valentino, New York, arch. David Chipperfield

 

I flagship store rappresentano oggi uno dei principali luoghi della città contemporanea dove il contesto virtuale [10] – prodotto dalle pubblicazioni degli abiti e delle architetture sul web – si unisce al contesto fisico – l’edificio materiale. Un incontro tra virtualità e realtà, invogliato non tanto dall’acquisto del prodotto, quanto dalla condivisione di una personale e singolare esperienza estetica.

 

Roma, Settembre 2017

Note

[1] Marenco Mores C. Architettura dei territori ibridi, Pendragon, Studi e ricerche, 2011

[2] “Undici Flagship Store in giro per il mondo”, Stefania Mele, Ninjamarketing:

http://www.ninjamarketing.it/2011/11/10/11-flagship-store-in-giro-per-il-mondo/

[3] Flavio Graviglia, “ADIEU AU LANGAGE #04: ARCHITETTURA E NEUROESTETICA. Frank Gehry ed il grado zero dell’esperienza”, Urbanistica Tre, Ottobre 2016:

https://urbanisticatre.uniroma3.it-old/?portfolio=adieu-au-langage-04

[4] Mostra al Museo di Roma dell’ Ara pacis: “Valentino a Roma 45 Years of Style” (08.07.2017 – 28.10.2007)

[5] “AngloMania: Tradition and Transgression in British Fashion”, Metropolitan Museum of Art di New York. (03.05.2006 – 04.09.2006)

[6] “David Chipperfield architects Valentino flagship Milano” Laura Andreini, fotografie Santi Caleca

[7] Ibidem

[8] Ibidem

[9] Santi Caleca è un fotografo specializzato in Architettura e Design, con base a Milano, oltre ad aver collaborato con David Chipperfield Architects, ricordiamo le foto per la Biblioteca Pio IX di Roma progettata da King Roselli Architetti. I suoi lavori sono pubblicati su Divisare, Archdaily e su importanti piattaforme internazionali.

[10] Per approfondire il concetto di “Contesto virtuale” si rimanda all’articolo “ADIEU AU LANGAGE #01: Contesto fisico vs Contesto virtuale” di Flavio Graviglia, pubblicato su Urbanistica Tre, Gennaio 2016.

Bibliografia

Marenco Mores C. Architettura dei territori ibridi, Pendragon, Studi e ricerche, 2011

David Chipperfield (Aut.), Luis Fernandez-Galiano (Aut.), Fulvio Irace (Aut.), Bernhard Schulz (Aut.), Rik Nys (a cura di), David Chipperfield Architects, Thames & Hudson Ltd 2013

Didascalie Immagini

[Immagine Copertina]: Foto di Santi Caleca, Flagship store Valentino, Roma, arch. David Chipperfield

[Immagine A] :Foto di Santi Caleca, Flagship store Valentino, Roma, arch. David Chipperfield

[Immagine B] : Foto di Jason Schmidt. The Valentino retrospective. From left- 2002 Collection; 2004; 2003; 2005 (center, top); 2002 (center, foreground); 2005; 2005; and 1987

[Immagine C] : Foto di Santi Caleca, Flagship store Valentino, New York, arch. David Chipperfield