Lessico dell’urbano 5

Lessico dell’urbano 5

PATCHWORK URBANI

 di Fabrizio Esposito

Architetto e Ph.D in Tecnica urbanistica, DSA – Dipartimento di Scienza dell’Architettura, Scuola Politecnica di Genova

METAPOLIS

Il termine (Ascher 1995, 1998) definisce una realtà che travalica il classico concetto di metropoli: “è un sistema con polarizzazioni esterne alle metropoli, in forma di rete e in scala internazionale, con epicentri (hubs) e radianti (spokes), modulati sulle rotte dei mezzi di trasporto rapidi, che differisce sostanzialmente dal diagramma della distribuzione gerarchica-spaziale delle città della teoria dei luoghi centrali” (Rufì 2004, p. 112). La metapolis è una metropoli frammentata e profondamente eterogenea, non necessariamente costituitasi per contiguità, la cui struttura è data dalle città esistenti sottoposte a processi di densificazione, addizione, con­quista, trasformazione o eliminazione di intere parti. “La metapolis si costruisce e si sviluppa per spazi, progetti, emergenze, che non sono necessariamente contigui al centro della città, ma che spuntano in aree costruite o vergini, come metastasi o rizomi” (ib.).

La formazione delle metapolis è indotta dalla crescita esponenziale dei ritmi delle nuove tecnologie telematiche. La possibilità di spostare informazioni, persone e cose molto più velocemente rispetto al passato, induce un diverso concetto di prossimità e di vicinanza fra abitazione, lavoro e svago, che “si manifesta nello svincolamento dal peso della storia e dalla locazione geografica strettamente intesa, (…) con l’ibridazione di ogni riferimento culturale” (Ascher 1996, p. 29).

Morfologicamente, la metapolis contiene al suo interno una o più metropoli con centinaia di migliaia di abitanti; la sua crescita è radio­centrica, lineare o a rizomi, a grumi o ad aggregati, e questa frammentazione, determinata e favo­rita dai mezzi di trasporto rapidi che collegano punti prescelti all’interno della stessa metapolis, crea uno spazio duale, tra i centri metropolitani e le terre di nessuno, con la scomparsa fisica e concettuale degli spazi prima definiti come “periferie”.

La nuova società metapolitana si basa su un aumentato valore dato alla vita quotidiana e alla dimora domestica, poiché la casa si trasforma in uno spazio di interscambio grazie alle tecnologie dell’informa­zione e di moltiplicazione delle attività, incluse quelle lavorative, tanto che “l’abitante metapolitano è individualista e frammentato ne­gli stili di vita, vive costantemente in un ipermercato di quotidianità” (Ascher 1996, p. 34).

Il termine ha avuto ampia diffusione, andando incontro a ulteriori modifiche concettuali: metapolis come post-polis o post-metropolis, oppure come suggestione progettuale, avvicinandosi alle astrazioni della città generica.

EDGE CITY

Termine tra i più consolidati per definire le nuove città statunitensi che rimanda all’immagine della “città americana di confine o di frontiera sconosciuta” (Garreau 1991).

La matrice formativa è da ricercarsi nella ri-localizzazione delle industrie più competitive e dei centri direzionali fuori dalla grande città statunitensi iniziata negli anni ‘50. Sostanzialmente, si tratta di una serie di spazi autosufficienti, destinati a industria leggera e a servizi del terziario, ad alta tecnologia, nati ai margini dei nodi delle principali arterie autostradali o in adiacenza ad aeroporti internazionali, ovvero vicino ad hub che permettono di attingere facilmente a una forza lavoro ben formata e che vuole spostarsi in modi efficaci, in contrasto con l’affollamento e il disordine dei centri urbani. Queste aree sono “libere dalla “fuliggine” e dall’inerzia politica e sociale e costituiscono degli ambienti incontaminati che possono essere visti come un’opzione attraente per investitori e famiglie che hanno intenzione di esplorare nuovi modi di creazione della ricchezza, di vivere e lavorare” (Garreau 1991, p. 253).

Questa radice pragmatica è il motivo per cui le edge cities vengono solitamente declassate da vere e proprie città a semplici appendici dipendenti da un centro urbano di gerarchia superiore: edge node più che edge city (Borja, Castells 1997; Bingham 1997; Hayden 2003).

Tuttavia, la edge city sembra ben rappresentare i nuovi nodi fisici autosufficienti in cui milioni di americani vivono, producono e consumano, ovvero sembrano contenere tutti gli elementi costitutivi di una città: “in­dustria, governo, cultura, società e religione. In essa sono presenti lo spirito di comunità, il sentirsi partecipi di qualcosa che trascende l’individuo e la famiglia, il buon governo e la sicurezza” (Rufì 2004, pp. 103-104). Gli abitanti delle edge cities rappresenterebbero, quindi, una sorta di avanguardia di un nuovo modello sociale, economico e territoriale.

EDGELESS CITY

Termine recente, utilizzato per descrivere una forma di polverizzazione urbano di grana minutissima, caratterizzato da un’alta concentrazione di office employment, come le edge cities, di cui rappresenterebbe la fase successiva di sviluppo (Lang 2003).

Questo tipo di urbanizzazione “si sviluppa negli Stati Uniti dopo gli anni ‘70, con la diffusione della funzione per eccellenza della città – il commercio – nei territori senza bordi, abbozzando alcune nuove centralità, sovvertendo la canonica gerarchia territoriale e innescando alcune scintille atipiche di sviluppo territoriale, consolidandosi come forma urbana dispersa attuale a più bassa densità di sviluppo”, ormai così diffusa che, oggi, il fulcro delle attività economiche del terziario negli Stati Uniti non è più appannaggio delle città centrali (Lang 2003, pp. 16-17).

Le città edgeless si sviluppano in forme urbane scomposte, sempre in espansione, con costruzioni indipendenti, “parchi a ufficio” o piccole serie di fabbricati senza relazione evidente, allineati lungo le interstatali suburbane e le arterie viarie più importanti. Non sono mete per lo shopping o il divertimento, anche se possono includere malls o altre attrattive di svago. Difficilmente raggiungono la già bassa densità e coesione delle edge cities. In quest’ottica, “rappresentano la nuova fase della decentralizzazione continua della metropolis moderna, sino a dominare la geografia della metropoli orientata verso il suburbano, ma non riusciranno a sottrarre le industrie che incidono pesantemente sulle culture civili odierne, la moda, l’intrattenimento, la pubblicità, l’editoria e le telecomunicazioni, che prospereranno soltanto nelle città dense” (Lang 2003, p. 22).

Curiosamente, le edgeless cities, per quanto rappresentino la più avanzata forma di espansione dispersa e a bassissima densità, sembrano un’alternativa promettente per molti fautori del New Urbanism, tanto che “gli Smart Growthers (…) hanno felicemente abbracciato il modello delle edgeless cities come sostituto della crescita suburbana non regolata” (Kenneth Orski, Shaw 2005, p. 7).

GENERIC CITY o CITTÀ GENERICA

Metafora che descrive tutte le urbanizzazioni “costituite da una casualità di architetture frammentarie, (…) che si evolvono in maniera non prevedibile e quindi non pianificabile” (Koolhaas 1995, p. 51).

Il termine nasce in ambito architettonico intorno alla metà degli anni ’90 (Koolhaas, Mau 1995), quando i nuovi fenomeni urbani vengono paragonati, spesso impropriamente, a oggetti biologici, spiegabili tramite la genetica molecolare e il concetto di adattabilità: “la città generica si sviluppa come se varie spore cadute a caso avessero preso il sopravvento grazie alla naturale fertilità del terreno e ora costituissero un insieme, un pool genetico arbitrario di geni che talvolta dà risultati stupefacenti, o che invecchia molto in fretta e muore giovane. (…) Tutte le città generiche nascono da una tabula rasa, se non c’era nulla, ora ci sono loro; se c’era qualcosa, l’hanno rimpiazzato” (Koolhaas, Mau 1995, p. 196). La città generica è, quindi, abbastanza grande, può dilatarsi o contrarsi a seconda delle esigenze, può autodistruggersi o rinnovarsi senza problemi perché in ogni sua parte è ugualmente interessante o priva di interesse. La sua originalità sta semplicemente nell’abbandonare ciò che non funziona (ciò che è sopravvissuto al proprio uso) e nell’accettare qualunque cosa cresca al suo posto. In questo senso, la città generica si adatta tanto al primordiale quanto al futuristico, generandosi tramite un processo incrementale di accostamento di caselle in “un’antologia di tutte le possibilità” (Mastrigli 2006, p. 118) i cui elementi da combinare sono le strade, gli edifici e la natura.

Un unico ideale sembra guidare l’affermarsi della città generica: “densità nell’isolamento” (Mastrigli 2006, p. 37). Il paesaggio urbano che ne deriva è un amalgama di sezioni estremamente ordinate e caotiche, un vero e proprio «patchwork di stili e di identità” (Amendola 1997, p. 7) che tuttavia permette di leggere, ordinare e, addirittura, datare il caos urbano, ad esempio attraverso l’attenta lettura della geometria degli aeroporti: “pianta esagonale, pentagonale od ottagonale: anni ‘60; pianta e alzato ortogonali: anni ‘70; conglomerato urbano a collage: anni ‘80; sezione curva unica, estrusa all’infinito in un piano lineare: probabilmente anni ‘90” (Koolhaas, Mau 1995, p. 50).

In questa città, “la scoperta più pericolosa e più esilarante è che la pianificazione non fa alcuna differenza: quello che non è permesso in un posto, sarà permes­so con grande profitto in un altro. E quello che non funziona, si butta via o si sostituisce. La città generica è cinicamente utilitaristica, pron­ta a condonare e senza etica” (Koolhaas 2006, p. 87). All’interno di questa visione diventa quindi inutile applicare vincoli: gli edifici possono essere ben collocati (una torre vicino a una stazione della metropolitana) o mal collocati (interi centri a chilometri di distanza da qualunque strada di grande comunicazione), gli insediamenti si sviluppano e muoiono in modo imprevedibile, le reti di comunicazione si ramificano, quindi si sovraccaricano, invecchiano e, infine, si disgregano, diventando obsolete.

CITTÀ EMERGENTE O VILLE EMERGENTE

Il termine nasce in ambito geografico francese (Bordreuil 1995, 1999; Haumont, 2003; Raymond et al. 2003) dall’osservazione delle mutazioni nell’espansione dei sobborghi residenziali, unita alle trasformazioni della mobilità e della comparsa di molteplici possibilità di scelta negli spostamenti, generata dalla sempre più intensa separazione fra luoghi centrali simbolici e luoghi di frequentazione dell’inconscio collettivo (Dubois-Taine, Chalas 1997; Chalas 2000).

In contrapposizione all’omogeneità, alla continuità, all’armonia, la città emergente pare preferire la discontinuità, la frattura e le lacerazioni come caratteristiche squisitamente urbane, anche con risolti socio-politici: “la città emergente (…) non costituisce più un punto di riferimento condiviso dai cittadini odierni, per definizione eterogenei e differenziati, rimandando al problema della democrazia nel quadro di una condizione urbana attuale radicalmente diversa rispetto a quante l’hanno preceduta” (Balsebre 1997).

Il termine pone l’accento sul nuovo significato del concetto di centralità, più “effimero” o “transitorio” rispetto al passato, e nella corrispondenza che esso trova nell’architettura dei nuovi centri commerciali, degli uffici e dei bar-ristoranti con scenografie consolatorie e storicistiche. Anche l’impatto dell’informatica e del multimediale sullo spazio pubblico cittadino sembrano concorrere alla nascita di questa nuova forma urbana, dove la piazza Wi-Fi assume il ruolo di nuovo punto di aggregazione, seppur immateriale.

CITTÀ PULVISCOLARE

Territorializzazione dell’urbano utilizzata per descrivere l’attuale espansione deregolata del meridione italiano (Ricci 2003).

La città pulviscolare si costruisce per principi autonomi di trasformazione, le cui molecole – che corrispondono alla moltitudine di soggetti che abitano il territorio e lo modificano secondo logiche individuali – punteggiano lo spazio, “mettendo in atto a distanza un principio di variazione e un principio di differenza” (Ricci 2003, p. 22).

Questo patchwork è tenuto insieme dalle infrastrutture, che funzionano da attrattori lineari per gli episodi di urbanizzazione e che contribuiscono alla costruzione del paesaggio per intersezioni di scala. Singoli edifici commerciali si dispongono in sequenza lungo le strade, trasformandole in strade-mercato, mentre i nuclei residenziali si sviluppano in corrispondenza degli svincoli a formare la città policentrica. Ogni elemento è in relazione individuale con l’intero sistema esclusivamente attraverso la strada. Gli intervalli, le distanze tra un elemento e l’altro sono il risultato delle modalità di costruzione, sono i luoghi che rivelano l’esistente al di sotto della nuova trama e sono un elemento compositivo dell’insieme. È sempre la strada a definire i tipi di architetture: la sequenza ingresso-parcheggio-edificio è identica, che si tratti di uno stabilimento balneare, di un contenitore commerciale o produttivo o di una casa. Attività commerciali, abitazioni, ristoranti e alberghi occupano indifferentemente gli stessi edifici a forma di casa. Nascono nuovi tipi ibridi dall’abbinamento di attività: la casa-officina, il centro produzione­-vendita, il lido-ristorante-discoteca, le variazioni spontanee sul tema del “parco” residenziale.

Il termine, vista la specificità del territorio d’indagine e le modalità spesso non regolamentate con le quali si verifica questo accrescimento urbano, dovrebbe essere declinato come sprawl dell’Italia meridionale.

Bibliografia

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Borja, J., Castells, M. (1998) La città globale. Sviluppo e contraddizioni delle metropoli nel terzo millennio. Novara: De Agostini.

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Garreau, J. (1991) Edge city. Life in the new frontier. New York: Dubleday.

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Kenneth Orski, C., Shaw, J. (2005) Smart Growth? Rocky Mountain News, July, 9.

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Mastrigli, G. (2006), Postfazione, in Koolhaas, R. (a cura di), Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet, Macerata, pp. 91-118.

Raymond, H., Haumont, N., Dezès, M.G., Haumont, A., Lefebvre, H. (2003) L’habitat pavillonnaire. Paris: L’Harmattan.

Ricci, M. (2003) Rischiopaesaggio. Roma: Meltemi.

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