Oltre la museificazione
“accendere la miccia esplosiva riposta nel già stato” (Parte II: strumenti)
di Lidia Decandia
in copertina: studioazzurro.com
Il predominio della visibilità su tutte le altre forme di conoscenza ha trasformato i segni, e le sopravvivenze che arrivavano dal passato in semplici oggetti documentari, accartocciati su se stessi che oggi non siamo più capaci di interrogare, ma solo di descrivere e contemplare, privandoli di ogni contestualizzazione di senso.
Questo disincantamento ha impoverito il nostro mondo sottraendo valore e significato alle cose. Non riuscendo più a investire affetti e proiettare simboli e significati sul nostro territorio lo abbiamo sempre più reso indifferente, togliendoli quel “sovrappiù di significazione” che lo ha reso muto. Sempre più affannosamente ci muoviamo su territori che non amiamo e non conosciamo, su superfici sterili e insignificanti, privi di latenze e profondità, cercando di trovare matrici, norme, regole, che possano aiutarci a ristabilire nuovi patti tra uomo e uomo e tra uomo e natura.
E tuttavia mai come oggi ci rendiamo conto che per ristabilire un transito vitale tra noi e il territorio l’adozione di norme astratte e decreti generalizzanti non può essere sufficiente. Una nuova amicizia, una nuova relazione di cura può nascere infatti solo da un rapporto intimo, vissuto, da una esperienza vera di conoscenza, dalla capacità di investire e di comunicare affetti ed emozioni. Mai come in questo tempo sentiamo il bisogno di arricchire il nostro mondo aggiungendo o valore e significato alle cose e di reinvestire di senso il territorio per stabilire relazioni vitali con i luoghi e riprenderci cura degli ambienti che ci circondano.
Perché questo possa avvenire occorre allora trovare strumenti nuovi attraverso cui far rivivere rigogliosamente quei monumenti accartocciati e imbalsamati chiusi su sé stessi, che oggi non sappiamo più interrogare. Imparare dunque ad andare oltre le immagini e trasformare “questi segni muti” in veri e propri “segni parlanti” da decifrare, restituendogli quei significati che sono stati erosi, in quanto superflui o marginali, dall’usura dell’abitudine, dall’allentamento della memoria storica e dalla pratica delle generalizzazioni scientifiche. Provare, in qualche modo, a riaccendere la forza “numinosa” del monumento. Superare il punto di vista visivo per ricominciare a mettere in relazione il mondo degli oggetti e delle cose con le dimensioni immateriali, le immagini, le voci e i suoni da cui sono stati prodotti. E soprattutto non limitarsi a costruire luoghi di imbalsamazione e di conservazione, ma realizzare situazioni e ambienti in cui creare forme di conoscenza vitali, capaci non di produrre oggetti ma di fornire risorse di senso, di darci energia e motivazioni, di lanciare metafore comunicative in grado di sgelare e di rimettere in moto la passione collettiva, di spingere ad amare, ad agire e a fare.
Anziché trattare le tracce che ci giungono dal passato come semplici oggetti da museificare, dobbiamo farle diventare delle scintille capaci di accendere “la miccia esplosiva riposta nel già stato” (Benjamin 1977, p. 14) e costruire “costellazioni ricche di futuro” in cui il “già stato possa incontrarsi con l’adesso”.
A questo proposito gli strumenti di conoscenza e di comunicazione che hanno ridotto “la storia a mera oggettività pietrificata, ad accumulo di dati e oggetti non mediati dalla conoscenza e non illuminati dalla decifrazione e dalla contestualizzazione del loro senso” (Bodei 2009, p. 55), ci appaiono insufficienti. Così come quella logica classificatoria che, nel disincantare il territorio, ha ridotto questi segni a oggetti inerti, trasformando i monumenti in documenti. Queste forme di conoscenza non riescono infatti a farci entrare in contatto con “il dorso”, del territorio, con quello spessore insondabile che si intravede al di là delle superfici. E neppure ci offrono strumenti per aiutarci a smontare e a lavorare questa temporalità complessa; quella “mescolanza composta” che costituisce il tempo del nostro presente.
Occorre allora trovare strumenti e dispositivi nuovi che sappiano ritornare a far parlare questi segni imbalsamati che oggi non sappiamo più interrogare. Realizzare contesti che sappiano farci sviluppare “l’attitudine alla contemplazione non di ciò che c’è ma di ciò che manca” (Balzola & Rosa 2011, p. 71) riabituandoci a prestare orecchio inascoltata delle cose, a costruire ponti tra visibile ed invisibile, ma anche a custodire il mistero dell’eccedenza dei significati, l’esuberanza della realtà che mai interamente potrà essere svelata.
Per questo dobbiamo lavorare per creare, utilizzando i linguaggi contemporanei, nuove modalità e nuove forme di narrazione, attraverso cui poter costruire processi di esplorazione ed esperienze collettive di conoscenza. Processi ed esperienze coinvolgenti in grado di risvegliare memorie assopite, di suscitare risorse di desiderio e di speranza, ma anche di catalizzare e diffondere energie progettuali e creative. In questo senso solo i linguaggi dell’arte e della poesia ci possono aiutare.
Sappiamo, del resto, quanto già in passato questi linguaggi, messi ai margini a partire dalla modernità, dalla vita delle comunità, fossero ingredienti essenziali nella costruzione delle diverse territorialità[1].
Conosciamo dalla storia della città quanto l’arte, proprio per questa sua capacità di abolire, attraverso l’uso delle metafore e dei linguaggi sensibili, le distanze spazio-temporali, e di metter in comunicazione realtà distanti e altrimenti incomunicabili, avesse un ruolo importante nella vita delle comunità. Sappiamo quanto i riti e i miti fossero fondamentali per tramandare le stesse conoscenze dei territori, per alimentare i legami sociali, ma anche per rigenerare continuamente la politica, intesa come azione per la polis. Conosciamo quanto quelle “immagine agentes” capaci di colpire l’immaginazione, di suscitare, attraverso una fascinazione sensibile e emotiva, profonda risonanza e di far toccare, percepire suoni, sapori, odori, fossero utilizzate per risvegliare e vivificare il senso di appartenenza e rendere partecipi gli abitanti dei luoghi della costruzione dei valori su cui si costruiva il senso comune della stessa comunità (Decandia 2000).
Si tratta allora, senza inventare nulla, di trovare forme nuove per ridar vita a istituzioni antiche. E di immaginare che l’arte “chiusa in questi ultimi decenni – forse proprio un po’ come l’urbanistica – in un sistema autoreferenziale per addetti ai lavori pilotato, in questo caso da logiche di mercato e di immagine” (Balzola Rosa 2011, p.22) possa finalmente uscire da sé. “Uscire da sé per ritornare a circolare nell’organismo umanità come il sangue circola nell’organismo umano per rigenerarlo continuamente” (ibidem) per ritornare a farle assumere un ruolo centrale nella costruzione delle città e dei territori.
Questo ruolo che l’arte aveva in passato nella costruzione di territorio oggi è particolarmente potenziato dalle tecnologie multimediali e interattive. E’ grazie a queste tecnologie, come mostrano esempi particolarmente significativi[2] che diventa oggi possibile, proprio recuperando, reinterpretandola in chiave contemporanea la dimensione performativa dei riti, costruire inediti habitat narrativi in grado di innescare processi collettivi di riappropriazione, esplorazione e raccolta dei bacini di memorie contenute nei territori, ma anche scardinare quelle immagini, piatte, consunte e stereotipate a cui abbiamo ridotto le sopravvivenze del nostro passato.
Attraverso l’uso di questi strumenti e nel riscoprire il ruolo e la centralità sociale dei linguaggi sensibili e metaforici, potremmo cominciare ad immaginare nuove forme di “pianificazione poetica” non limitate più solo a produrre oggetti, norme, strumenti di controllo del territorio, ma in grado di agire, attraverso la costruzione di contesti di apprendimento relazionale. Contesti in cui mettersi al lavoro “poeticamente”, e “molecolarmente”, rimettendo in connessione la scatola dei ricordi con quella dei sogni e utilizzando forme di razionalità vitali e linguaggi capaci di far appello non solo all’intelletto ma anche ai sensi, per riaprire relazioni affettive con i luoghi e per produrre, dinamizzare, mettere in circolo e socializzare un’intelligenza collettiva a cui riaffidare la capacità di prendersi cura dei beni e delle risorse del territorio[3].
Bibliografia
Balzola A. & Rosa P. 2011, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano.
Benjamin W. 1977, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino.
Bodei R. 2009, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari.
Decandia, L. 2000, Dell’identità. Saggio sui luoghi: per una critica della razionalità urbanistica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Decandia L. 2008, Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica, Meltemi, Roma.
Decandia L. 2010, Sensitive city: costruire la città degli uomini. La profezia di una contro-utopia, in Studio Azzurro (a cura di), “Sensitive city. La città dei portatori di storie”, Milano, Scalpendi, pp. 26-39.
Decandia L. 2011 (a), Ritessere un rapporto con i luoghi. Il museo come laboratorio di pratiche relazionali e interattive di riappropriazione del territorio, in Studio Azzurro, “Musei di narrazione. Percorsi interattivi e affreschi multimediali”, Milano Silvana Editoriale, pp. 186-19.
Decandia L. 2011 (b), Sensitive city: la città dei portatori di storie. Intrecciare arte, memoria e nuove tecnologie per costruire nuovi modi di narrare la città, in Atti XIV Conferenza Società Italiana degli Urbanisti “Abitare l’Italia. Territori, economie, diseguaglianze“, Torino, 24-26 marzo 2011, www.conferenzasiu2011.it
Decandia L. 2011(c), L’apprendimento come esperienza estetica, Franco-Angeli, Roma.
Dewey J. 1934, Art as experience, Minton, Balch & Company, New York, trad. it. 1951, L’arte come esperienza, in C. Maltese (a cura di), La Nuova Italia, Firenze.
Studio Azzurro 2007, Tracce, sguardi e altri pensieri, a cura di B. Di Marino, Feltrinelli, Milano.
Studio Azzurro 2010, Sensitive city. La città dei portatori di storie, Scalpendi, Milano.
Studio Azzurro 2011, Musei di narrazione. Percorsi interattivi e affreschi multimediali, Silvana Editoriale, Milano.
[1] Sulla centralità sociale dell’arte e sul ruolo che questi linguaggi avevano nel rafforzare il rapporto fra individui e comunità e fra comunità e territorio rinvio alle interessanti pagine di Dewei (1955). Sull’argomento e per ulteriori indicazioni bibliografiche mi permetto di rinviare a Decandia (2000 e 2008).
[2] In questo senso interessanti e feconde aperture mi sembrano offerte da alcuni filoni della ricerca artistica contemporanea ed in particolare dal gruppo Studio Azzurro. Attraverso la creazione di ambienti sensibili e interattivi, strano impasto di arte e tecnologia “spogliata dalle sue corazze” (Rosa in Studio Azzurro, p. 94), pensati non come narrazioni predefinite ma come strumenti capaci di andare al di là dell’opera per innescare processi, sollecitare reazioni e comportamenti, questi artisti individuano strade promettenti per riaprire un dialogo con la “profondità” del mondo. Nell’accostare “aspetti di tecnologia avanzata con elementi tratti dal passato remoto” (ib.) lavorano per operare uno smarcamento da una nozione di reale appiattita sulla dimensione del visibile e su un’idea di contemporaneo schiacciata nella simultaneità del presente. In questo senso il loro lavoro mi sembra possa indicare piste feconde per contribuire a rigenerare e a contaminare il nostro campo disciplinare. Proprio per questo con questo gruppo di artisti ho avviato in questi ultimi anni una intensa collaborazione, volta proprio a sperimentare la creazione di ambienti narrativi legati alla città e al territorio. Dopo l’installazione Sensitive City presentata all’esposizione universale di Shangai stiamo in questi ultimi mesi portando a termine il Mater (Museo dell’archeologia e del territorio di Mamoiada) e collaborando alla progettazione dell’allestimento del Museo dell’identità della Sardegna. Per un approfondimento dei contenuti teorici e degli esiti del loro lavoro cfr. il sito www.studioazzurro.com e i volumi Studio Azzurro, (2007, 2010 e 2011). Per la costruzione degli ambienti narrativi legati alla città e al territorio e per comprendere più a fondo le prospettive aperte dalla contaminazione tra il nostro filone disciplinare e questo tipo di linguaggio artistico mi permetto di rinviare a Decandia (2010, 2011a e 2011b ).
[3] In questa direzione si sviluppano le sperimentazioni portate avanti in questi ultimi anni da Matrica. Laboratorio di fermentazione urbana, che dirigo presso la Facoltà di Architettura di Alghero. All’interno del laboratorio, mettendo al lavoro le premesse teoriche sviluppate in questo saggio, abbiamo realizzato dei particolari contesti di apprendimento collettivo: vere e proprie officine di conoscenza, di progetto e di azione dedicate al recupero dei nuclei storici, alla creazione di beni pubblici e alla produzione di paesaggio. Cfr. al proposito Decandia (2011c) e il sito lastradacheparla.weebly.com.