Spazi domestici dell’alimentazione

Spazi domestici dell’alimentazione

Influenze degli spazi domestici dell’alimentazione sulla città

di Enrico Zampa

Laureato in architettura presso l’Università Roma Tre

[In copertina: Lotta tra Carnevale e Quaresima 1559, Pieter Bruegel il Vecchio]

Alla ricerca delle origini spaziali dei processi dell’alimentazione dell’epoca moderna italiana, ho ritrovato letture, disegni e racconti che ancora persistono nella memoria storica e che, per la loro diffusione nel territorio, azzarderei chiamare patrimonio nazionale: le case rurali. Vere e proprie cellule della comunità, già dopo la guerra cominciano a essere abbandonate per i continui flussi migratori verso la città, ma rimangono parte fondante della residenza moderna. Nello studio dell’evoluzione dello spazio archetipico e primario del focolare, cuore della casa, sono emerse dinamiche e pratiche che racchiudevano l’organizzazione lavorativa e la vita sociale. Spezzare il pane o condividere una zuppa era la prima e l’ultima azione della quotidianità collettiva e l’ultima fase di un intenso processo di lavorazione. E non solo: si trattavano i problemi quotidiani del lavoro, ma principalmente si esplicavano tutte le dinamiche del vivere comunitario.

I restanti spazi della casa erano adibiti invece alle diverse lavorazioni ed i letti erano superflui perché i braccianti, che formavano la categoria più bassa del lavoratore agricolo, dormivano nei fienili.

Il cibo è sempre stato elemento centrale delle più grandi rivoluzioni: lo avevano capito i romani con il Panem et circenses; ce lo ricorda la leggendaria Maria Antonietta d’Asburgo con il suo «che mangino brioches!». Tuttavia Massimo Montanari, in L’identità italiana in cucina, a tal proposito ci racconta di sommosse popolari nate per la mancanza di pane, nonostante la presenza di altri alimenti. Il significato e le esperienze attribuiti a certi cibi lasciano segni profondi nelle generazioni. E così, se fino a poco tempo fa, e forse anche adesso, il pane era considerato il primo alimento accessibile, tutt’ora la carne è considerata pietanza pregiata, nonostante un’abbondante disponibilità a prezzi tutt’altro che proibitivi.

La diffusione nazionale della cucina, intesa come arte gastronomica, avviene durante l’epoca fascista attraverso la propaganda statale e, grazie alla rivista La Cucina Italiana, c’è un primo abbattimento delle barriere regionali, creando quella indissolubile unità, funzionale allo stato nazionalista. Casciato osserva che, nell’Italia fascista, la cucina in particolare assume un grande significato simbolico perché, in uno stato basato sulla famiglia con radici nel mondo rurale e che conferisce un ruolo importante alla nutrizione, il nucleo fondamentale, produttivo e demografico ha sede nel cuore della casa, ossia nella cucina. Da uno specifico punto di vista della fascistizzazione della domesticità, la cucina razionale era vista come una imposizione dell’ordine e, in quanto tale, indotta dal regime.

La cucina accompagna i cambiamenti della società dittatoriale quanto gli sviluppi di una società industriale. Apparsa sistematicamente all’interno del Movimento Moderno viene esaltata da Giuseppe Pagano per i principi classici della serialità ed Ernst May, assessore all’urbanistica della città di Francoforte, nel 1926 incarica Margarete Schütte Lihotzky, in quanto architetto donna, di progettare una cucina, la Frankfurter Küche, cuore delle nuove residenze per operai per le Siedlungen di Bruchfeldstrasse, Praunheim e Ginnheim.

Negli stessi anni, ai due estremi del planisfero, troviamo un’alternativa sostanziale all’urbanistica di stampo tedesco. Negli Stati Uniti, a New York, nascono giovani comunità fondate sui principi socialisti di Owen e Fourier, che hanno tra le finalità cardinali la liberazione delle donne dalle fatiche domestiche. In The Grand Domestic Revolution, la Hayden spiega quali vantaggi derivino dalla comunione dei lavori di casa in termini produttivi e sociali, individuando un risparmio economico e temporale: infatti negozi che si occupano di tali mansioni (lavanderie, forni, ecc.) sono sicuramente più efficienti per il numero di impiegati, per i macchinari più capienti e per il risultato qualitativamente migliore.

Dolores Hayden propone di istituire cucine collettive in sostituzione di quelle individuali. Nella comunità Shakers di Harlem, non solo il progetto viene attuato, ma diventa un luogo di crescita di tecniche e tecnologie. Tra le invenzioni più innovative, un tipo più razionale di lavatrice, una stufa conica per scaldare i ferri da stiro, la scopa piatta, i telai smontabili delle finestre per una pulizia e una manutenzione più facili, il fornello rotondo per una cottura più uniforme e altre ingegnose apparecchiature.

La prima conquista all’interno di questi collettivi domestici fu soprattutto la fine dell’isolamento della massaia, lo stesso che Lenin rivendicava in uno scritto del 1919:

la vera emancipazione delle donne, il reale comunismo, comincerà solamente quando e dove ci sarà una lotta a tutto campo (guidata dal potere proletario) contro questa insensata domesticità, o piuttosto quando la sua intera trasformazione si evolverà in una economia socialista a larga scala”[1].

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In URSS, precisamente a Mosca, ci sono stati esperimenti di cucine comuni inserite in una unità minima urbana, estremamente diversa dall’alloggio unifamiliare. In altre parole strutture collettive con servizi compartiti, antesignane dell’attuale cohousing: le Dom Kommuna di Moisei Ginzburg e Ignatii Milinis. Si viene così a creare una sotto-comunità che ricorda la Unité d’Habitation di Le Corbusier per il tentativo di ingrandire la cellula urbana, ma con dinamiche collettive opposte.

Dal dopoguerra lo sviluppo dello spazio domestico dell’alimentazione si riduce allo studio della funzionalità della cucina, intesa come sistema componibile di elementi. La Frankfurter Küche da’ il via all’industrializzazione di un artefatto che non interagisce con le dinamiche urbane, ma rimane relegato nella stanza francofortese della “schiavitù domestica”.

In Italia gli artigiani diventano industriali e, con gli insegnamenti del Modernismo e la tecnologia di origine statunitense, cominciano a produrre elettrodomestici e mobilio che permettono alla donna di svolgere al meglio il suo unico lavoro.

Con il passare degli anni l’innovazione alimentare soccorre la condizione sociale della donna con il forno a microonde, il frigorifero, la lavastoviglie e altri strumenti che diminuiscono notevolmente il tempo impiegato per il processo produttivo ultimo dei pasti. Si consideri anche l’abitudine crescente degli italiani di consumare il pasto all’esterno delle mura domestiche nella pausa pranzo lavorativa o semplicemente in momenti di svago, nonché il notevole aumento del lavoro femminile impiegatizio o nel settore industriale.

È interessante notare come l’industria alimentare abbia affiancato la crescita tecnologico-industriale della cucina ed il percorso emancipativo della donna con la produzione di cibi precotti e surgelati che, in linea con i principi della globalizzazione, hanno incentivato l’utilizzo delle energie di produzione e di trasporto, un costo minore della manodopera e la dislocazione dei centri di allevamento o coltura.

rodchenko-17“The Factory Kitchen” 1931, Alexander Rodchenko

Tuttavia, dagli ultimi anni del secolo scorso, la residenza ha cambiato formula distributiva, tornando al centro della casa con il living-room. Non è più uno spazio poco igienico, né sinonimo di segregazione di genere, ma il luogo in cui ricevere gli ospiti, condividere nuovamente le dinamiche familiari, oltre ad essere un modo per risparmiare metri quadrati. Se il primo passo nel disegno della configurazione distributiva residenziale era la suddivisione di spazi serviti e spazi serventi (tra cui la cucina), ora si propende per una scelta dipendente dall’uso, vale a dire zona giorno e zona notte.

Nel mezzo della terza crisi di sovrapproduzione e in relazione ad un trend di densificazione urbana, la compressione dello spazio si incrementa notevolmente e le dinamiche dei processi domestici scavalcano il confine privato; già nella Milano degli anni ’80 Pozzetto in Ragazzo di campagna[2] mostra il disagio di un appartamento di 20 mq in cui le funzioni della casa non riescono più ad essere contenute nello spazio domestico.

Così, se uniamo allo sviluppo sopra citato, la progressiva apertura sociale a sfumature mondane e le nuove forme di solitudine del contesto metropolitano, assai diffuse nel nuovo secolo, avremo un’immagine sufficientemente chiara per cominciare a domandarci quali soluzioni architettoniche e dinamiche urbane si svilupperanno nello scenario futuro.

È probabile che, se lo spazio dedicato alle funzioni domestiche verrà talmente ridotto da essere considerato incomprimibile e talvolta, per collocazione, disagevole, sarà necessario valutare la ridefinizione delle funzioni e vagliare l’ipotesi di “esternalizzare” alcune di queste in ambienti condivisi o pubblici, riducendo i costi, aumentando il beneficio sociale e moltiplicando lo spazio, intervenendo cioè sulla quarta dimensione: il tempo.

 

Note:

[1] LENIN V. I. 1919, Collected Works, progress publishers, URSS

[2] Ragazzo di Campagna, regia di Franco Castellano, Pipolo, Italia 1984

 

Bibliografia:

Frederick C. 1923, Household Engineering, American School of Home Economics, Chicago.

Hayden D. 1982, The Grand Domestic Revolution, Massachusetts Institute of Technology, Massachusetts

May E. 1926, Mechanisierung des Wohnungsbaus, in Das neue Frankfurt, no.2

Montanari M. 2010, L’identità italiana in cucina, Laterza, Roma.