Qualcuno è passato di là
Sintomi, tracce, segnali per accedere allo spessore del contemporaneo (parte I: metodi)
di Lidia Decandia
in copertina: tracceurbane.it
Trame superstiti di antichi paesaggi, vecchi manufatti, brani di città antiche, rovine, si disseminano nelle pieghe dei territori della post metropoli contemporanea. Testimonianze infinitamente preziose anche se frammentate. Come dei lapsus, degli stracci lasciati a caso, o come dei vecchi liuti abbandonati che nessuno suona più, queste impronte di tempo sbalzano nello spessore del presente. Lettere superstiti di antiche scritture interrotte, difficili da decifrare, si incuneano nelle pagine dei nostri ambienti di vita, rendendo difficile e intricata la complessa lettura dei mutamenti contemporanei. Come “stelle” provenienti da mondi lontani, questi segni muti lanciano messaggi, ci pongono in relazione con una realtà molto più ampia da quella con cui siamo abituati a fare i conti, e ci costringono a entrare in rapporto con quella temporalità complessa, quarta dimensione del nostro spazio, da cui prende forma il nostro presente.
Come orme sulla sabbia, ci indicano infatti che qualcuno che non c’è più è passato di la (Ricoeur 1994). Parafrasando Didi-Huberman potremmo dire infatti che questi segni “giocano contemporaneamente sui due tavoli del tempo: sulla lunga durata e sull’istante presente” (Didi-Huberman 2009, p.20). Da un lato infatti ci fanno entrare in relazione con il passato: ci parlano di qualcosa che è successo in un tempo molto lontano. Dall’altra essi non solo sono nel presente, ma portano con se le tracce di un tempo continuamente operante. Essi materializzano “un divenire che dura”, un cambiamento che costituisce la sostanza stessa di quegli oggetti.
In un certo senso potremmo dire – riprendendo Proust – che questi segni “occupano un posto ben altrimenti considerevole, accanto a quello così angusto, riservato loro nello spazio, un posto al contrario occupato a dismisura – poiché essi toccano simultaneamente età così lontane l’una dall’altra …, tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi – nel tempo” (Proust 1978, p. 391).
Come, giare sigillate, ognuno di questi segni porta inoltre con sé qualcosa che va oltre la sua stessa materialità tattile e visiva: un cono di virtuale di memorie da cui è emerso e in cui si distende. Cono di memorie in cui convivono voci, storie, affetti, percezioni, colori, profumi, ricordi, latenze, rimozioni, significati, sogni, progetti da cui ognuno di questi segni ha preso forma e insieme aspettative incompiute, progetti non realizzati, possibilità a cui la forma stessa di questi oggetti non è riuscita a dare espressione, ma che magari in quel tempo erano nell’aria e che oggi giacciono esitanti, attendendo di essere guardati per venire nuovamente alla luce.
Potremmo allora dire, cambiando registro di linguaggio, che i segni che giungono dal passato costituiscono “soltanto i punti notevoli, le figure emergenti che si stagliano in un mare profondo di memorie da cui sono emersi , in quel “virtuale – direbbe Deleuze – che è la dimensione indefinita e senza frontiere di ciò che poteva e può realizzarsi”.
E’ proprio questa dimensione “reale ma non attuale” – come direbbe Proust, “che risiede non nell’apparenza dell’oggetto, ma a una profondità in cui tale apparenza conta ben poco” (Proust 1978, p. 213) a complessificare la lettura del nostro territorio contemporaneo. Proprio perché in esso sono presenti queste sopravvivenze, che arrivano da lontano, e che portano con sé un passato che non passa e che il territorio trascina con sé via via che si evolve, come una “placenta d’ombra”, esso non può essere immaginato come una semplice estensione continua in cui ciò che esiste è solo ciò che si vede, così come la rappresentazione classica ci aveva abituato; ma deve piuttosto essere concepito, come una sorta di spazio-tempo a più dimensioni, in cui il passato “coesiste virtualmente con il presente” (Deleuze 1966, p. 42). Una sorta di mare increspato, in continuo mutamento, in cui nell’orizzonte contemporaneo temporalità discontinue, fatte di tanti fili disgiunti e sfilacciati, si intrecciano per dar forma alla superficie del presente. E tuttavia come nella superficie del mare, anche nel territorio, l’orizzonte del presente non appare bloccato e solidificato nella dimensione di una piatta contemporaneità senza spessore, ma animato da memorie, forze ed energie che non si vedono, ma che lavorano continuamente per produrre cambiamento.
Complessificare la lettura del presente: i rapporti non lineari fra le diverse temporalità
In questo mare il rapporto fra le diverse temporalità è tutt’altro che lineare. Appare invece determinato dal continuo mescolarsi, di onde, risacche, vortici, correnti, che talvolta arrivano da lontano o giungono dal fondo. In questo senso dobbiamo immaginare il tempo che da forma al territorio non come ad una successione progressiva di strati sovrapposti da srotolare secondo un unico racconto. Ma come una storia fatta piuttosto di continui rimescolamenti, montaggi e smontaggi, fratture, sopravvivenze e anacronismi, cesure, regressioni, ritorni spesso inattesi.
Una storia in cui “il tempo – come suggerisce ancora Didi-Huberman “più che scorrere lavora” (Didi-Huberman 2002, p. 294) attraverso un movimento continuo, che determina scivolamenti, cadute e rinascite, seppellimenti e risorgenze, decomposizioni e ricomposizioni, tensioni e latenze, colpi e contraccolpi. In questo senso possiamo immaginare il territorio come l’esito dinamico di un inarrestabile processo di formazione.
Un processo in cui può accadere che il crollo multiplo di blocchi di presente possa fare riaffiorare molteplici livelli di passato. Oppure che, al contrario, l’affermarsi di nuove forme di appropriazione possa rimuovere o mettere in latenza antichi spazi e che magari successivamente possono talvolta anche essere nuovamente riscoperti. Proprio per questo possiamo immaginare il tempo del territorio, più come un tempo psichico che un tempo storico. Una sorta di inconscio in cui il passato non solo non viene estinto da quel che viene dopo; ma continua a sussistere condizionando potentemente non solo il presente ma anche il futuro. Non è un caso che Freud, per farci comprendere il processo di stratificazione della psiche umana, abbia utilizzato proprio l’immagine di una città: Roma (Freud 1930, p. 205-206). E’ proprio attraverso questa immagine che egli è riuscito a mettere in evidenza come quelle sopravvivenze possano diventare essenziali non tanto riportare alla luce epoche già consunte, ma piuttosto per smontare, lavorare, rimettere in movimento il passato e potersi riappropriare della propria soggettività da vivere nel presente.
Come dei geyser che risalgono in superficie da epoche lontane, queste sopravvivenze sono infatti sintomi, segnali, tracce mnestiche, che rivelano qualcosa di noi. In quanto tali possono aiutarci a comprendere quel paesaggio che oggi ci appartiene, di cui dobbiamo reimparare a prenderci cura, non semplicemente salvando alcuni oggetti, ma riconsiderando quello spessore temporale che lo ha fatto essere quello che è.
Il fatto che questi segni arrivino, infatti, da lontano o che, allo stesso modo, alcune altre tracce siano state cancellate o antiche modalità d’uso siano scomparse o rimaste latenti dice qualcosa di noi oggi contribuendo in egual misura a dar forma e consistenza alla trama dei nostri territori contemporanei. Come osserva Agamben, infatti, commentando il pensiero di Freud “nel presente convive non solo ciò che si vede del passato ciò che si ricorda, ma anche le rimozioni che entrano a far parte di una latenza …non solo il ricordo, ma anche l’oblio è contemporaneo della percezione e del presente” (Agamben 2008, p. 101)… “ciò significa che non è solo e non tanto il vissuto, ma anche è innanzitutto il non – vissuto a dar forma e consistenza alla trama della personalità psichica e della tradizione storica, ad assicurar loro continuità e consistenza. E lo fa nella forma dei fantasmi, dei desideri e delle pulsioni ossessive che incessantemente urgono nella coscienza (individuale o collettiva)” (Agamben 2008, p. 102).
Mettere in moto e lavorare il tempo
È proprio dunque attraverso queste tracce, segnali minuti e fragili capaci di mettere insieme “il già stato con l’adesso” (Benjamin 2007, p. 518), che può diventare possibile, avviare un profondo lavoro di scavo. Un vero e proprio lavoro di regressione archeologica che solo ci può consentire non di conservare, ma di rimettere in movimento, il passato che il territorio porta con sé. Metterlo in moto da un lato in primo luogo per fargli perdere il suo rango originario e trasformarlo in maniera creativa, in fonte di cambiamento e di trasformazione[1]. Ma anche per aiutarci a ritrovare e liberare presenze nascoste che avevamo dimenticato, riaprire sorgenti che avevamo seppellito, estrarre coralli, perle preziose e rare, frammenti dal mucchio di rovine, che potrebbero aiutarci a nutrire, dissetare, ripensare il nostro presente (Harendt 1995, p. 99).
Bibliografia
Agamben G. 2008, Signatura Rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino.
Benjamin W. 1982, Das Passagenwerk, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, trad. It. 2007, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino.
Deleuze G. 1966, Le bergsonisme, Paris, Presses universitaires de France; trad. it. 2001, Il bergsonismo e altri saggi, Torino, Einaudi.
Didi Huberman G. 2002, L’Image survivante. Histoire del’artet temps des fantômes selom Aby Warburg, Éditions de Minuit, Paris; trad. It 2006, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, 2006
Didi-Huberman G. 2008, La ressemblance par contact. Archéologie, anachronisme et modernité de l’empreinte, Édition de Minuit, Paris; trad. it. 2009, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta, Bollati Boringhieri, Torino.
Freud S. 1930, Das Unbehagen in der Kultur, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Berlin; trad.it 1971, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino.
Harendt H. 1995, Il futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna.
Proust M. 1955, A la recherche du temps perdu. VIII Le temps retrouvé, Gallimard, Paris; trad. it 1978, Alla ricerca del tempo perduto. VIII Il tempo ritrovato, Einaudi, Torino.
Ricoeur P. 1985, Temps e récit III. Le temps raconté, Editions du Seuil, Paris; trad.it 1994, Tempo e racconto Volume 3. Il Tempo raccontato, Jaca Book, Milano.
Rovatti P. A. 2001, Un tema percorre tutta l’opera di Bergson, introduzione a Deleuze G. 2001, Il bergsonismo e altri saggi, a cura di P.A. Rovatti e D. Borca, Einaudi, Torino.
[1] Come osserva Agamben infatti “la regressione archeologica….non serve a ripristinare uno stato precedente ma a decomporlo, a spostarlo, e, in ultima analisi, ad aggirarlo, per risalire non ai suoi contenuti, ma alle modalità, alle circostanze e ai momenti della scissione che, rimuovendoli, li ha costituiti come origine. Essa è, in questo senso, l’esatto contrario dell’eterno ritorno: non vuole ripetere il passato per consentire a ciò che è stato, trasformando il “così fu” in “un così ho voluto che fosse”. Vuole al contrario lasciarlo andare, liberarsene, per accedere, al di là o al di qua di esso, a ciò che non è mai stato, a ciò che non ha mai voluto. Solo a questo punto il passato non vissuto si rivela per ciò che era: contemporaneo al presente, e diventa in questo modo per la prima volta accessibile, si presenta come “fonte”. Per questo la contemporaneità, la compresenza al proprio presente, in quanto implica l’esperienza di un non vissuto e il ricordo di un oblio, è rara e difficile; per questo l’archeologia che risale al di là del ricordo e dell’oblio, è la sola via d’accesso al presente” (Agamben 2008, p. 103).