Lessico dell’urbano 1

Lessico dell’urbano 1

Lessico dell’urbano 1

Città globali

di Fabrizio Esposito

Architetto e Ph.D in Tecnica urbanistica, DSA – Dipartimento di Scienza dell’Architettura, Scuola Politecnica di Genova

MEGALOPOLI

Definizione utilizzata dalla fine degli anni ‘60 per descrivere la struttura urbana emergente nei paesi sviluppati, costituita da una rete policentrica di livello metropolitano, poggiante su una trama di reticoli, che a sua volta si distacca da un sottofondo interstiziale continuo di localizza­zioni diffuse (Gottmann 1970, 1978, 1983). Secondo questa accezione, dopo il 1960, l’urbanizzazione assume caratteri totalmente e profondamente “urbani”, quale espressione massima della capacità umana di imporre ordine al territorio. Questi organismi sono connotati da precise quantità: popolazione complessiva superiore ai 25 milioni di abitanti; densità media superiore ai 250 abitanti/kmq; presenza, all’interno della conurbazione, di nuclei in cui la densità di popolazione è più alta della media.

La megalopoli è organizzata per soddisfare le esigenze del cittadino, senza essere condizionata dagli ostacoli naturali e dalle distanze, inglobando perfino gli spazi agricoli per usi non urbani.

Il processo di formazione della megalopoli inizia con l’affermazione di un centro gerarchicamente dominante, il nucleo-gui­da. Col trascorrere del tempo, il nucleo si ingrandisce, imponendo il proprio stile urbano e il proprio modo di contrarre relazioni ai centri più prossimi, vincolandone le modalità e le funzioni di crescita. Contemporaneamente, i centri limitrofi aumentano le loro relazioni con il nucleo-gui­da, tanto da instaurare forme di competizione settoriali con esso. Da ultimo, le relazioni all’interno della megalopoli si assestano su una rete che assegna fun­zioni distinte nei diversi centri, diversificate in base alla collocazione spaziale, richiamando un modello di “città a rete” (Dematteiis 1990). La trama delle relazioni si esprime attraverso infrastrutture rigide (elettrodotti, gasdotti, acquedotti e sistemi di smaltimento dei rifiuti) e flessibili, sia visi­bili e misurabili (flussi di traffico, spostamenti di merci e persone, flussi telefonici, corrispondenza postale), sia astratte (interessi comu­ni, scambi di informazioni, rivalità e conflittualità). Queste reti di relazioni sovrapposte contribuiscono a mantenere unite e interconnesse le diverse componenti interne della megalopoli.

Tuttavia, nessuna megalopoli risulta interamente urbanizzata: sussistono spazi interstiziali riservati al tempo libero o ad altri usi, votati a un’agricoltura specializzata o a copertura boschiva con funzione ludico-ricreativa.

La crescita della megalopoli è sostenuta da processi di immigrazione generati dall’attrazione e dalle opportunità offerte dalla conurbazione. Gli spazi esterni perdono popolazione, soprattutto in particolari momenti storici, come nella fase di transizione dall’economia agricola a quella industriale.

È interessante notare le due opposte prospettive attraverso cui è visto il territorio esterno alla megalopoli: se per le ricerche di matrice statunitense è un’area illimitata, isotropa e indifferente in cui la megalopoli si “diffonde”, per gli europei è un territorio strutturato che subisce una perdita di senso e una dismissione delle attività agrarie secolari, in seguito ai fenomeni di “dispersione” megalopolitana.

A partire dalla teoria originaria, molti autori hanno riconosciuto megalopoli in aree geografiche diverse: il Tokaido giapponese (Isomura 1967; Castells, Hall 1994), la megalopoli renana (Mainardi 1993, 2000), l’area Londra-Midlands (Hall 1996), l’Île de France, la megalopoli padana (Turri 2000).

Il termine è stato successivamente inteso come macchina megalopolitana, organismo che utilizza energia per costruire strutture adatte al produrre e all’abitare umano, e sistema che obbedisce alle sollecitazioni di un sistema di potere (Latouche 1995). La macchina megalopolitana è complessa e flessibile, integra in un unicum residenze, produzione, servizi e cultura, utilizza un territorio fisico dotato di risorse naturali, profondamente modellato dall’uomo, estesamente urba­nizzato e posto al centro di un universo geografico intimamente congiunto alle macchine-regione del resto del mondo.

Per alcuni autori, dalla frammentazione e dalla partenogenesi delle megalopoli si generano le edge cities (Garreau 1991; Hayden 2003); per altri, le megalopoli sarebbero la punta più densa di un unico grande sistema planetario, l’ecumenopoli (Spengler 1957; Doxiadis 1974).

HIPERVILLE o IPERCITTÀ

Il termine è traslato dalla linguistica strutturale, in particolare dall’adattamento del significato di “ipertesto” ai fenomeni urbani contemporanei. L’ipertesto è un insieme di documenti correlati per mezzo di parole-chiave che può essere letto in sequenza non lineare: la scelta di una parola-chiave porta all’apertura di una serie di documenti piuttosto che di altri, costruendo inediti e infiniti percorsi di lettura. Come un ipertesto, quindi, l’ipercittà non ha una struttura lineare e univoca: è il risultato di una moltitudine di scelte disarmoniche succedutesi nel tempo, che obbediscono a logiche differenti (Corboz 1995).

L’uso del termine indica non solo l’estensione della città su tutto il territorio, ma soprattutto descrive la realtà dell’urbano come un documento con numerosi rimandi e note a margine che rinviano a percorsi e letture trasversali. L’ipercittà è il risultato di numerose scelte, tutte razionali, ma che obbediscono a logiche differenti rispetto alle scelte del passato.

Il termine, rimandando ai concetti di contrasto, tensione, discontinuità e libero assemblaggio, descrivere in maniera calzante i ca­ratteri territoriali frammentati dei fenomeni urbani odierni, contraddistinti da un’alternanza esasperata tra dispersione e concentrazione e dalla perdita di riconoscibilità tra le parti che costituivano la città pre-industriale. Di riflesso, hiperville, proponendosi come nuovo schema di lettura, “esattamente come nel XX secolo le correnti artistiche erano state capaci di creare e giustificare nuove estetiche, dal cubismo all’arte povera” (Corboz 1996, p. 245), diviene il termine ad hoc per criticare il concetto classico di città storica, basato su omogeneità e ordine.

Un possibile variante interpreta ipercittà come città cablata, città informatica o télépoli (Echevarría 1994), facendo leva sulla strutturazione a rete sottintesa ad ambedue i modelli, o all’utopica plug-in-city di ARCHIGRAM (Lang 2003). In ambedue i casi, è sinonimo di città onnipresente, ubiqua, che racchiude tutte le realtà urbane frammentarie, strutturata in un unico immenso volume compatto, formato da elementi standardizzati, dove l’automazione è innalzata al livello degli esseri umani.

POST-METROPOLIS

Post-metropolis è un termine coniato per descrivere le trasformazioni urbane della conurbazione di Los Angeles e della West Coast statunitense (Scott 2001; Soja 1999, 2007): “Los Angeles è la metropoli in grado di contenere la massima frammentazione possibile e, al tempo stesso, tutti gli elementi che rendono piccolo e contempo­raneo il mondo” (Soja 1999, p. 18). La postmetropolis è una forma che conserva le tracce degli spazi urbani precedenti, ma che, allo stesso tempo, è qualcosa di significativamente nuovo e diverso, proponendosi come risultato in divenire di un’epoca di riorganizzazione sociale, alla pari con le trasformazioni originanti la città industriale capitalista.

I fenomeni socio-spaziali modificano profondamente il rapporto tra urbano e suburbano concettualizzato a partire da un modello urbano (Wirth 1938) e poi metropolitano (Garreau, 1991; Soja 2000). Le cause sarebbero riconducibili alla globalizzazione del capitale, del lavoro e della cultura, alla ristrutturazione economica, agli effetti di facilitazione legati alle nuove tecnologie informatiche e di comunicazione (Ellin 1996; Scott, Soja 1996).

Emergono nuove problematicità perché molti autori utilizzano il termine con un’accezione negativa, ritenendo che, col passaggio alla dimensione postmetropolitana, si siano amplificati i problemi della metropoli, ovvero siano aumentati i degradi ambientali e la polarizzazione sociale, generatori di nuove disuguaglianza e insostenibilità. Il prefisso, dunque, indica il trapasso delle logiche socio-spaziali della metropoli fordista, basate sulla vicinanza fisica delle parti, all’agglomerazione di fatti e funzioni senza contiguità e correlazione, caratteristici della metropoli-territorio. La mancanza di limiti si riflette nelle pratiche quotidiane, nella formazione della società civile, nella costruzione di un immaginario urbano comune, poiché questi fattori sono influenzati da restrizioni globali che “vanno significativamente a ridurre la sfera dell’autonomia dell’ambito urbano: l’assenza di limiti della metropoli, il suo espandersi in grandezza e obiettivi è la caratteristica centrale della transizione postmetropolitana” (Soja, Frixia 2009).

Il termine, quindi, può essere avvicinato a quello di ipercittà, ma mantiene un grado di ambiguità molto più elevato (Barberi 2010). La poliedricità della post-metropolis, infatti, è così accentuata che genera una moltitudine di nuovi termini: flexcity (Gugler 2004; Braun, Castree 2005), città flessibile nei confini e nei contenuti, adattabile continuamente ai meccanismi del mercato; cosmopolis (Sandercock 2004), metropoli abitata da persone che provengono da tutti i paesi del mondo, capace di racchiudere contemporaneamente la massima frammentazione del locale e l’omogeneità della logica globale; exopolis o, addirittura, “contenitore di exopolis”, rimescolamento tra forme di suburbano in contesti tipicamente urbani e forme di urbanità in contesti tipicamente suburbani, “città senza cittadinanza” caratterizzate da una ossimorica ambiguità derivante da uno stile di vita “pienamente urbana (city-full) non urbana (non city-ness)” (Soja 2000, p. 95); polar-city (Soja 1999), città costruita sull’accentuazione dei poli e dei problemi della megalopoli; carceral city (Alexander 2007), città di oppressione e chiusura, in cui esiste una rigorosa differenziazione socio-spaziale che genera frammentazione e violenza; sin city (Soja 1999), città della simulazione e delle attrazioni illegali.

Per quanto ambiguo, il termine palesa in maniera perfetta il ritardo della disciplina nella lettura dei nuovi rapporti tra città, dimensione, densità ed eterogeneità, e si propone come seria critica al concetto di crescita urbana basato sulle nozioni di agglomerazione e conurbazione, intese la prima come incremento della città compatta, la seconda come saldatura di più nuclei contigui.

GLOBAL CITY

Il termine rimanda alle trasformazioni urbane indotte dalla macroeconomia (Dogan, Kasarda 1988; Hall 1996; Clark 1996; Sassen 1997, 2001), trasformazioni che inglobano incessantemente le periferie, sconvolgendo le relazioni tra soggetto e spazio, mutando continuamente l’orizzonte e la forma del costruito, “così che, a distanza non più di anni ma di mesi, tutto appare diverso dal viaggio precedente” (Ciorra 2003, p. 19). La perdita di confine è sottintesa dal termine stesso: il commercio globale e l’obbligo di replicare l’organizzazione ordinata dei mercati, impongono un modello sempre uguale a se stesso, ovunque nel pianeta.

In questa accezione, global city assurge a scena prima della globalizzazione: “l’economia estesa alla scala planetaria esige città modellate a sua immagine e somiglianza, generando città globali tutte uguali” (Koolhaas 2006, p. 23). Contraddittoriamente, tuttavia, ogni città globale sembra essere alla ricerca di una propria diversità di luoghi, di storia e di culture, necessaria non tanto all’uomo che la abita, quanto al city user che la attraversa per un periodo di tempo ridotto: “è come ritrovarsi a Kuala Lumpur o a Valparaiso, a Mosca o Singapore, immersi in un luogo familiare ma, nello stesso tempo, totalmente estraneo, in planimetrie che ricordano altre planimetrie, in piazze che ricordano altre piazze” (Koolhaas 2006, p. 24).

La città globale cresce attraverso una serie di proliferazioni successive, inglobando altre unità urbane e sperimentando tecniche e materiali che stanno all’architettura come la bio-ingegneria sta alla biologia. L’anelito alla staticità e l’azzeramento delle condizioni storiche e geografiche sono il presupposto per lo sviluppo delle città globali.

Il termine prelude alla cancellazione progressiva del passato e alla scomparsa di qualsiasi prospettiva futura. La stessa storia è “un astratto senza tempo che porta a concentrare nel presente presupposti ed esiti delle trasformazioni che nella metropoli prendono forma. Immerso e protetto nell’eterno presente del suo febbrile trasformarsi, declassato in maniera pervasiva al rango di parco tematico, il mondo-metropoli sfugge a qualsiasi ipotesi sul suo dopo. A farne le spese sono i luoghi in cui si concentra la massima densità di relazioni, di desideri e di possibilità per chi vi vive. Sottraendo al loro spazio la dimensione temporale, tali luoghi perdono gran parte dell’energia propulsiva che da sempre ne fa i laboratori privilegiati delle forme e delle pratiche di vita collettiva”  (Koolhaas, Boeri, Kwinter, Tazi, Ulrich Obrist 2000, p. 9).

 

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