Lessico dell’urbano 2

Lessico dell’urbano 2

Territori a bassa densità

di Fabrizio Esposito

Architetto e Ph.D in Tecnica urbanistica, DSA – Dipartimento di Scienza dell’Architettura, Scuola Politecnica di Genova

DISPERSIONE/DIFFUSIONE URBANA

Termine che descrive un modello di urbanizzazione dilatato fino ai margini estremi di una regione metropolitana, caratterizzato da edilizia discontinua che si diffonde inizialmente lungo le infrastrutture di trasporto, occupando disordinatamente ampie porzioni di suolo (Dear 1984; Dematteis 1992; Tamburini 1995; Cinti 1997). Questa forma urbana è “tendenzialmente segregata per destinazioni monofunzionali [ed] è caratterizzata dall’assenza di strumenti di pianificazione strategica” (Camagni, Gibelli, Rigamonti 2002: 120).

La dispersione/diffusione urbana ha tre cause principali: la diffusione dell’automobile e la sua preferenzialità come mezzo di spostamento, con conseguente strutturazione spaziale determinata dal tracciato stradale, dagli svincoli, dalle aree di parcheggio e dei garage privati; la trasformazione demografica delle società industrializzate, con nuclei familiari più piccoli, allungamento della vita media, famiglie separate e diminuzione del rapporto persona/alloggio); le politiche per l’abitazione che hanno sostenuto una crescita in orizzontale come soluzione al degrado e al sovraffollamento della città compatta. Se queste tre spinte, inizialmente, hanno migliorato le condizioni abitative della città industrializzata, oggi non producono più vantaggi sociali (l’isolamento causa il cosiddetto effetto “new town blues”, prodotto dello sradicamento dai quartieri della città compatta) e ambientali: la forma suburbana a bassa densità aumenta il consumo di energia e acqua, riduce la permeabilità dei suoli e la presenza delle colture, diminuisce l’efficienza dei mezzi di trasporto pubblici, con aumento delle emissioni carbon-intensive. Generalmente, quindi, il termine è declinato in senso negativo, se non addirittura dispregiativo.

Il termine è riconducibile a molti altri: disseminazione urbana (Cinti 2004; Guérois, Pumain 2002, 2003), urbanizzazione dispersa (Barattucci 2004), dispersione insediativa, urbanizzazione diffusa.

CITTÀ DIFFUSA

Il termine è introdotto per descrivere la formazione di un modello di città non basato sulla concentrazione, ma sulla bassa densità (Indovina 1990, 1993, 1999a, 1999b, 2003; Savino 1997), in seguito all’intrecciarsi di due fenomeni convergenti, uno endogeno, di densificazione delle aree rurali, e l’altro esogeno, di de-densificazione delle aree urbane centrali. Non si tratta di una suburbanizzazione tout court, ma di una vera e propria nuova città, innescata da un profondo processo di trasformazione economica, derivante dalla polverizzazione delle attività produttive in piccole e medie aziende e dal consolidamento dei distretti industriali. A tale processo si somma un calo demografico che interessa le città di medie-piccole dimensioni.

Il concetto, quindi, travalica gli aspetti formali del fenomeno, perché vede questo proces­so come risultato di trasformazioni delle pratiche sociali e dei rapporti socio­-spaziali. Si tratta di una vera e propria evoluzione che prende le mosse dalla frammentazione delle aree agricole e dalla conseguente trasformazione dell’economia e dei nuclei familiari a esse legati: l’eccedenza di mano d’opera agraria non sarebbe sfociata nell’emigrazione, ma nella ricerca di un’occupazione in settori lavorativi nelle vicine città. Una prima urbanizzazione dello spazio agricolo sarebbe quindi da attribuire alla costituzione di nuovi nuclei familiari, non più dediti esclusivamente alle attività agricole, che si stabiliscono intorno all’originaria dimora di famiglia. In seguito, l’industrializzazione endogena di questi spazi agricoli avrebbe contribuito a un’ulteriore fase di densificazione, sfruttando la già esistente struttura territoriale agricola (strade poderali e secondarie, reti di scarico, canalizza­zioni delle acque, ecc.). Contemporaneamente, nelle città di medie e grandi dimensioni, si verificano due fenomeni che favoriscono la formazione della città diffusa: un decentramento pro­duttivo e una trasformazione dei mercati residenziali urbani, con conseguente diversificazione dell’offerta di lavoro e di servizi (Fregolent 2006). Altri fattori basilari per la formazione della città diffusa sono l’incrementalismo e la mobilitazione individualistica (Secchi 2005), di natura semi-illegale e auto-organizzata (Debernardi 2002).

La città diffusa è stata assimilata alla edge city, ai non-luoghi (Indovina 2005), allo sprawl classico americano (Nel.lo 2001, Ingersoll 2004), alla rururbanizzazione (Dematteis 1992) o, ancora, all’urban field e alla jam city o “marmellata edilizia.

CITTÀ DIRAMATA

Alla base di questo neologismo vi sono le tendenze di fondo delle società contemporanee, indirizzate verso il meno massificato, il più differenziato, il più “leggero”. Queste tendenze di fondo si esprimono anche nel modificare le configura­zioni urbane, utilizzando le nuove tecnologie della comunicazione, “in virtù delle quali si può essere funzionalmente vicini, pur essendo spazialmente non prossimi” (Rufì 2004: 110).

Alla base della formazione della città diramata c’è un processo economico e demografico, innescato dalle classi sociali più elevate, che tendono a concentrarsi nel centro storico, dando vita ad un processo di rinnovamento urbano. La classe media, al contrario, si de-urbanizza, allontanandosi dal centro in funzione della disponibilità economica e della distanza “sopportabile” tra residenza e luogo di lavoro. Le vecchie periferie, i quartieri operai e popolari, infine, sono abbandonati al degrado fisico e sociale. Questo processo aumenta le disomogeneità sociali nei quartieri interni e provoca ambivalenze stridenti, effetti duali ben evocati dall’immagine della clessidra (Detragiache 2003).

La diramazione urbana si realizza in modalità diverse. Gli schemi tipici, tuttavia, sono tre: l’aggiunta di spazi edificati ai margini delle cinture metropolitane; le operazioni immobiliari localizzate in punti nodali, in corrispondenza di snodi autostradali o adiacenti a stazioni metropolitane/ferroviarie; l’infiltrazione di popolazione urbana in zone con particolari caratteri storico-ambientali, a distanza elevata dalla città centrale.

Nel primo caso, i centri in­teressati da questo fenomeno sono quelli più esterni e di dimensione minore, purché essi siano dotati di un buon col­legamento con la rete viaria metropolitana. La nuova edificazione si sviluppa lungo le linee di comunicazione stradale esistenti, dissolvendo le forme urbane preesistenti.

Nel secondo caso, la crescita assume un carattere maggiormente urbano, in quanto i complessi residenziali richiamano servizi commerciali, spazi pubblici, luoghi di ritrovo. Se, a queste funzioni, si aggiungono le in­frastrutture per il trasporto a scala nazionale e internazionale, alberghi, residence, centri direzionali, impianti sportivi e infrastrutture per il loisir, allora la città diramata può essere accumunata edge cities statunitensi.

Infine, nel terzo caso, si manifesta una progressiva contaminazione tra stili di vita urbani con un più frequente contatto con la natura, pur garantendo la fruizione di servizi e di modalità di comunicazione tipicamente metropolitane. È questo un fenomeno che già in passato è stato designato con il termine rurubanizzazione e che dà luogo alla coesistenza tra popolazione rurale e ceti medio-elevati, spes­so ad elevato grado di istruzione.

URBAN SPRAWL

Sprawl, letteralmente, significa “sdraiato” (Webber 1968; Ewing 1997; Hayden 2003, 2004; Ingersoll 2004; Bruegmann 2005), ma non esiste una definizione letterale non anglosassone.

È un fenomeno indefinibile – “una frittata non cucinata: uova, formaggio, verdure, un pizzico di sale, ma ognuno consumato crudo e a parte” (Duany, Plater-Zyberk, Speck 2000: 42) – che richiama, a sua volta, altri termini ambigui: growth machine (il meccanismo inesorabile della crescita quantitativa), ruburb (suburbio rurale), category killer (enorme discount specializzato), duck (edificio-insegna della funzione contenuta), tower farm (raggruppamento di ripetitori per telecomunicazioni), fast-food (luogo di somministrazione veloce di alimenti dal costo sostenibile per la popolazione media).

Lo sprawl si registra intorno alle città, tra le città, e perfino dentro le città. È tipico delle società più ricche, ma ormai anche le città del terzo mondo manifestano fenomeni simili.

La nascita del concetto risale alla seconda metà del ventesimo secolo, quando gli Stati Uniti divengono prevalentemente suburbani: lo sviluppo delle reti di trasporto innesca un processo di allontanamento progressivo dalle aree centrali urbane, che trova una sintesi tra il modello della “casa signorile” e quello della “capanna di tronchi del pioniere” nella nascita dello sprawl (Bruegmann 2005).

L’aspetto comune a tutte le forme di sprawl, sia residenziali che commerciali, è il suo assetto caotico che nasconde, a sua volta, l’impossibilità di pianificare il processo stesso dello sprawling: esso si sviluppa non coerentemente con gli strumenti urbanistici, sfruttando il non detto della legislazione e le infinite varianti ai piani stessi. Lo sprawl ha, cioè, radici profonde nella politica economica del capitalismo avanzato, dove la produzione di spazi vendibili o affittabili unisce gli interessi di banche e assicurazioni alle grandi imprese edilizie, adottando strategie di massimizzazione dei profitti.

Alcuni autori avvicinano le urbanizzazioni disperse europee allo sprawl americano, basandosi sul fatto che queste sembrano introdurre urbanità molto lontane da quelle tradizionali europee (Haumont, Levy 1998). Tuttavia, il termine non è riferibile esclusivamente alla dispersione residenziale, ma anche a quella delle imprese. Inoltre, sussistono alcune ragioni storiche, di dimensione, morfologia e uso degli spazi, alla base della diversità tra i territori dello sprawl statunitense e quelli della dispersione europea (Sassen 1997; Barattucci 2004; Kratochwil 2004).

 

Bibliografia

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