iQuaderni #17

 

U3 iQuaderni #16

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luglio-settembre 2018

Nota Etica | Publication ethics
Processo di peer-review | Peer-review process
Revisori QU3 | QU3 Reviewers
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Sguardi sul progetto urbano
editoriale di S. Ombuen & N. Vazzoler
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Progetto urbano: il contesto come enigma
di P. Desideri
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L’alternativa Paesaggistica
di A. Metta
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Masterplan VS Progetto urbano. Sovrapposizioni, distanze
di M. Beccu
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Il futuro di Expo 2015 in una metropoli a progetto
di L. Gaeta
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Le nuove modalità di pianificazione di area vasta in Lombardia
di M. Federici & C. Penco
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Progetto urbano, strategia urbana, nuova qualità urbana, grandi assenti nella nuova città italiana?
postfazione di D. Zoppi
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En attendand Godot / Waiting for Godot

Con Rem Koolhaas (che non ho mai incontrato, né lui sa che io esisto) ho un rapporto difficile. Non seguendo molto da vicino le imprese degli architetti nostri contemporanei di lui non conoscevo che la fama di archistar. Questa è una categoria che non può a me, educato nella vecchia idea modernista di architettura come impegno civile, suscitare gran simpatia. S’aggiunga che mi son sempre interessato di città, piuttosto che di edifici, quindi di K. non mi sembrava essenziale occuparmi. Poi mi è accaduto di vedere da vicino alcune sue opere –Euralille, l’ambasciata olandese a Berlino e la Casa della musica a Porto- che mi hanno confermato nella mia ostilità verso le archistar, sempre così sfacciatamente indifferenti al contesto e alla storia (malgrado mille affermazioni in contrario). La Biennale veneziana di architettura del 2014 mi piacque, e ne riferii in una Nota del direttore su U3, proprio perché mi parve essenziale, legata a un modo non banale né consolatorio di rileggere l’architettura e la città, e per di più attento (o non indifferente) ai modi diversi di vivere lo spazio, per esempio attraverso i video o la danza. Questo mi fece ricordare che dovevo a K. il mio interesse per la città asiatica (di cui ho trattato in un testo a me caro ma sfortunato ) grazie ad una mostra che vidi a Londra negli anni novanta dedicata, mi pare, alle nuove metropoli non europee. Dunque K. non è solo un archistar (ma chi l’ha nominato?) che scrive libri con titoli glamour: ho dovuto ammetterlo. La raccolta di testi pubblicata ora da Payot a Parigi, con una assai dotta (e acuta) prefazione di Manuel Orazi, mi aiuta a rivisitare il personaggio, e l‘immagine che me ne ero costruito. K. non si limita a registrare il declino dell’Occidente di fronte alla evidente esplosione della città asiatica ma suggerisce interpretazioni suggestive dei modi –non semplicemente quantitativi- attraverso i quali si manifesta. La forza di Singapore è nel suo affermarsi come paradigma di modernità tout court senza alcun riferimento storico, grazie all’adozione di tutte le possibili abbreviazioni tecnologiche oggi disponibili.

Ciò vale, ad esempio, per l’adozione della lingua inglese pur estranea a tutte le etnie presenti nell’area. O nel sostegno dato all’istruzione a ogni livello, anche attraverso pervasivi programmi di borse di studio presso le più rinomate istituzioni occidentali. O nell’ossessivo controllo ambientale e sociale quanto nell’assenza di corruzione. Per il genius loci, invenzione tutta europea (ma sarà vero? Ricordiamoci almeno delle Vie dei canti raccontati da Bruce Chatwin) non c’è posto. Tanto più questo è vero ad Atlanta, dove la velocità delle trasformazioni, promosse da quel genio progettista immobiliare di John Portman, fanno tabula rasa di tutto ciò che era prima, cancellando in questo modo ogni parvenza di struttura gerarchica. La riscoperta di un centro ha portato alla proliferazione di altri (tanti) centri, la cui localizzazione apparentemente casuale – è comunque difficile da spiegare, legata com’è a opportunità finanziarie piuttosto che a luoghi. La diffusione vittoriosa dei medesimi caratteri di tale “città generica” sull’intero paesaggio urbano mondiale – tanto da sorprenderci nei nostri pregiudizi che la storia politica e sociale si manifesti nell’architettura – ha poi un effetto perverso sulle nostre vecchie città d’Europa. A queste non resta che imbellettare sé stesse, come dame d’un tempo alle prese con antichi maquillages: l’urbano contemporaneo e futuro è altrove.
(Magari un giorno nelle città post-sovietiche delle Stan-Republic, il cui fascino non necessariamente democratico sembra attrarre tante archistar?)
Ma forse non è sempre così, nota Orazi, se si considera quanto l’opera professionale di K. sia legata a Parigi e ai suoi programmi di espansione. E, nei suoi programmi di sviluppo e liberazione della Défense, sembra addirittura riprendere la geniale intuizione di Frank LL. Wright per Broadacre City.
Mi spiace per OMA, ma sono ancor più confortato nell’idea che K. dia il meglio negli scritti: la ricchezza provocatoria (quanto spesso anche azzardata o superficiale) della sua riflessione non è solo avvincente ma promette di esser utile nell’immaginare un futuro.

Lettera del direttore